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Caligorante

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Accadeva centocinque anni fa. 4 novembre 1918. L’Impero Austro-Ungarico firma la resa. L’ultimo tentativo austriaco di sferrare un’offensiva sul fronte italiano congiuntamente a quella tedesca in Francia era stato respinto sul Piave nel mese di giugno. Per replicare con una controffensiva, Diaz preferì attendere il momento propizio, finché cioè il processo di disintegrazione da tempo in atto non fosse giunto a minare alla base la volontà dell’Austria di resistere ed essa non potesse più sperare in alcun aiuto da parte della Germania. Il 24 ottobre l’armata di Cavan si mise in movimento per impadronirsi dei punti di attraversamento del Piave, e il 27 ottobre si scatenò l’attacco principale, che puntò su Vittorio Veneto per cercare di separare le armate austriache e tagliare le comunicazioni fra quelli attestati nella pianura adriatica e quelli che si trovavano sulle montagne. In alcuni punti il nemico resistette, ma la loro linea cominciò ben presto a crollare, e le forze italo-inglesi riuscirono a creare delle teste di ponte al di là del Piave. Il 30 ottobre l’esercito asburgico era spezzato in due: all’improvviso la fragile facciata dell’opposizione si sbriciolò e i nemici cominciarono a ritirarsi lungo tutta la linea. Il settore del Trentino, per tre anni bastione della difesa austriaca, venne invaso ed ebbe inizio un generale avanzamento verso nord e verso est. Durante la ritirata 300.000 soldati imperial-regi furono fatti prigionieri, rispecchiando il disastro di Caporetto dell’anno precedente. La ritirata si trasformò in una rotta e quello stesso giorno Vienna chiese un armistizio che venne siglato il 4 novembre, ufficializzato dal Bollettino della Vittoria di Armando Diaz. Alla fine gli italiani avevano contribuito a mettere in ginocchio la Gemeinsame Armee, già fiaccata dalle titaniche battaglie con i russi sul fronte orientale. Il Comando Italiano e la Stavka zarista (si tenga presente la troppo spesso sminuita offensiva Brusilov, forse il maggior successo dell’Intesa), da buoni asini da basto, avevano impegnato una parte non indifferente degli effettivi degli Imperi Centrali che, diversamente, avrebbe potuto essere schierata su altri fronti dopo la rivoluzione d’Ottobre del 1917. Gli italiani avevano vacillato quando i tedeschi erano brevemente intervenuti nella battaglia di Caporetto, ma alla fine avevano ricostituito da soli la linea difensiva lungo il Piave prima di avanzare, con l’assistenza di inglesi e francesi, per conquistare la vittoria. L’aquila bicipite collassò e Vienna dovette cedere le terre irredente, compresi il Tirolo, la valle dell’Isonzo, Trieste, l’Istria, la Carniola e la Dalmazia. Quella campagna era stata una tremenda mattanza ed era stata combattuta in un ambiente montano impervio e ostile. La scommessa italiana del 1915 avrà forse pagato, ma il prezzo fu elevato: in tre anni di “tempeste d’acciaio” rimasero uccisi 651.000 uomini. Originally posted in:
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"I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando"

Purgatorio, canto XXIV

Per me, la scrittura è questo e credo che i miei due amori, Dante e San Giovanni apostolo, la rappresentino alla perfezione.

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«Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io;
e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio.»
(Rut 1:16)

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"Vedesti", disse, "quell'antica strega

che sola sovr'a noi ormai si piagne;

vedesti come l'uom da lei si slega.

Bastiti, e batti a terra le calcagne;

li occhi rivolgi al logoro che gira

lo rege etterno con le ruote magne".

Purgatorio, canto XIX, vv. 58-63

Siamo alla fine del girone degli accidiosi e Dante fa un sogno: una femmina "balba (balbuziente)", cieca, storpia a mani e piedi e dal colorito smorto. Ma l'essere umano non la vede nel suo reale aspetto, bensì attraverso il filtro del suo richiamo seduttivo. Questa femmina, infatti, è un'allegoria dell'incontinenza verso i piaceri terreni, in particolare l'avarizia, la lussuria e la gola, puniti nei gironi successivi. È quindi, questo, un sogno che anticipa quello che Dante dovrà incontrare nel suo viaggio.

Al suo risveglio, Virgilio nota che la sua mente è ancora occupata dal ricordo del sogno e lo incita a passare oltre attraverso i versi che ho scelto di riportare.

Virgilio è sbrigativo e lo esorta a non perdere tempo a rimuginare sul peccato, ma di andare avanti e guardare alle cose celesti.

Troppo spesso, di fronte alle miserie che ci abitano, ci crogioliamo nel nostro non essere degni di accostarci ai santi, troppo spesso ci giudichiamo "troppo peccatori" e questo giudizio implacabile si pone come un ostacolo al cammino verso Dio.

Ma, una volta preso atto di non essere immacolati e perfetti secondo la nostra idea di perfezione, dobbiamo avere il coraggio di presentarci a Dio così come siamo: pieni di difetti, manchevoli, fallibili.

I nostri genitori non ci amano forse nonostante i nostri errori? E come potrebbe Dio non farlo, se sinceramente ci volgiamo a Lui con tutto il carico di vergogna, ma anche di devozione, che portiamo addosso?

Ma a Lui dobbiamo guardare, non a noi stessi, perché dalle tenebre si esce grazie alla luce, e la luce che possiamo trovare in noi non è altro che luce divina.

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