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Caligorante

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Accadeva ottantuno anni fa. 6 novembre 1942. A seguito dell’offensiva lanciata dal generale inglese Bernard Montgomery, denominata Operation Lightfoot, che vide l'impiego massiccio di carri medi americani Sherman, a El Alamein (Egitto) i paracadutisti della Folgore e la divisione corazzata Ariete sono costretti ad alzare bandiera bianca. I carri superstiti dell’Ariete, rabberciati alla meglio e comandati dal sottotenente Arduino Lampe, venivano schierati in difesa della stazione ferroviaria di Fuka. Nel combattimento che ne seguì contro le avanguardie corazzate britanniche il giovane ufficiale trovò la morte con la maggior parte dei suoi uomini. Il resto delle divisioni italiane erano state decimate. Soltanto la Trieste, unica ancora in discrete condizioni dopo giorni di intensi combattimenti, riuscì a raggiungere le posizione prestabilite. Poco restava della Pavia, della Bologna, della Trento, della Brescia, della Littorio e delle altre unità; la Folgore, invece, mancava del tutto all'appello. Sotto il fuoco nemico, le colonne proseguivano lasciando nella sabbia i feriti, i morti e gli assetati. Alle 14 gli altoparlanti delle autoblinde inglesi, dopo aver lodato gli italiani per il valore dimostrato, offrirono la resa con l'onore delle armi. I paracadutisti, bersagliati dalla terra e dal cielo, abbozzarono l'ultima resistenza. Erano le 16.35 di venerdì 6 novembre. «Prima di El Alamein non avevamo mai vinto, dopo di essa non perdemmo più» annotò Churchill. Più tardi, tre ufficiali che indossavano l'uniforme della Folgore furono condotti davanti al generale Hughes, comandante della 44a divisione britannica, che dalla Folgore, durante la battaglia, aveva subito lo smacco principale. Erano il comandante della divisione generale Frattini e i due suoi aiutanti, colonnelli Bignami e Boffa. Il numero dei prigionieri catturati dagli inglesi salirà fino a raggiungere le 35 mila unità. Nel complesso, l'armata italo-tedesca perse 9 mila tra morti e dispersi, 15 mila feriti e 400 carri distrutti. La battaglia di El Alamein era finita, ma gli inglesi non se ne resero subito conto. Rommel infatti riuscì infatti a trasformare l'ultima resistenza in un'abile ritirata. Malgrado la grande confusione, la Panzerarmee non era in rotta. Sull'unica strada costiera e lungo le piste adiacenti una colonna di automezzi lunga un centinaio di chilometri muoveva verso occidente. Si registrarono anche episodi curiosi. Per esempio, un'intera divisione corazzata britannica entrò in un campo ritenuto minato e vi rimase bloccata per un giorno intero prima che si scoprisse che quel campo era un trucco realizzato dagli stessi inglesi l'estate precedente. Il 6 novembre Montgomery riuscì a raggiungere la costa e a chiudere la sua trappola in un luogo chiamato Baggush, a est di Marsa Matruh, ma la trovò vuota. Il grosso delle armate dell'Asse si era già allontanato, e i pochi panzer ancora presenti riuscirono, dopo una dura lotta, a sfondare l'accerchiamento. Il giorno seguente le prime piogge autunnali trasformarono il deserto in una palude e i due schieramenti furono costretti a rallentare. Lungo la strada, i profughi italiani, che avevano abbandonato i loro i loro poderi, si accodavano al mesto corteo con carretti e furgoni colmi di masserizie. Durante il lungo tragitto si registrarono scene crudeli, ma anche episodi di profonda umanità. Il caporale Francesco Meloni, di Carbonia, fu raccolto gravemente ferito da un tenente tedesco che lo portò in salvo. Un maggiore italiano caricò sulla sua camionetta un paracadutista germanico ferito. Contemporaneamente, sotto il ciglione di Sollum, mentre gli aerei nemici mitragliavano, i tedeschi, per mettersi in salvo, sbarrarono la strada agli autocarri degli italiani che reagirono con rabbia. Ne nacque una scaramuccia con morti e feriti da una parte e dall'altra. I resti delle truppe italiane e della Afrikakorps ressero altri otto mesi schiacciati da una tenaglia che vedeva i britannici a est e gli americani, sbarcati in Marocco nell'estate del 1942, a ovest. Gli esperti militari ritengono che se le forze tedesche si fossero ritirate da El Alamein prima che Montgomery passasse all'attacco, difficilmente esse sarebbero state travolte come invece accadde. Originally posted in:
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"I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando"

Purgatorio, canto XXIV

Per me, la scrittura è questo e credo che i miei due amori, Dante e San Giovanni apostolo, la rappresentino alla perfezione.

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«Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io;
e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio.»
(Rut 1:16)

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"Vedesti", disse, "quell'antica strega

che sola sovr'a noi ormai si piagne;

vedesti come l'uom da lei si slega.

Bastiti, e batti a terra le calcagne;

li occhi rivolgi al logoro che gira

lo rege etterno con le ruote magne".

Purgatorio, canto XIX, vv. 58-63

Siamo alla fine del girone degli accidiosi e Dante fa un sogno: una femmina "balba (balbuziente)", cieca, storpia a mani e piedi e dal colorito smorto. Ma l'essere umano non la vede nel suo reale aspetto, bensì attraverso il filtro del suo richiamo seduttivo. Questa femmina, infatti, è un'allegoria dell'incontinenza verso i piaceri terreni, in particolare l'avarizia, la lussuria e la gola, puniti nei gironi successivi. È quindi, questo, un sogno che anticipa quello che Dante dovrà incontrare nel suo viaggio.

Al suo risveglio, Virgilio nota che la sua mente è ancora occupata dal ricordo del sogno e lo incita a passare oltre attraverso i versi che ho scelto di riportare.

Virgilio è sbrigativo e lo esorta a non perdere tempo a rimuginare sul peccato, ma di andare avanti e guardare alle cose celesti.

Troppo spesso, di fronte alle miserie che ci abitano, ci crogioliamo nel nostro non essere degni di accostarci ai santi, troppo spesso ci giudichiamo "troppo peccatori" e questo giudizio implacabile si pone come un ostacolo al cammino verso Dio.

Ma, una volta preso atto di non essere immacolati e perfetti secondo la nostra idea di perfezione, dobbiamo avere il coraggio di presentarci a Dio così come siamo: pieni di difetti, manchevoli, fallibili.

I nostri genitori non ci amano forse nonostante i nostri errori? E come potrebbe Dio non farlo, se sinceramente ci volgiamo a Lui con tutto il carico di vergogna, ma anche di devozione, che portiamo addosso?

Ma a Lui dobbiamo guardare, non a noi stessi, perché dalle tenebre si esce grazie alla luce, e la luce che possiamo trovare in noi non è altro che luce divina.

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