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Caligorante

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Accadeva centotrentuno anni fa. 17 gennaio 1893. Dopo appena due anni di regno, viene spodestata la regina Liliuokalani delle Hawaii, arcipelago situato a quasi 3.700 chilometri dal continente americano. La posizione strategica delle Hawaii faceva gola a Washington: la Cina era un mercato importante per i battelli commerciali americani che dalle coste occidentali degli USA si dirigevano nell’Oceano Pacifico e nel Mar Cinese, e nelle Hawaii potevano fare uno scalo intermedio. I primi a sbarcare nell’arcipelago furono missionari e balenieri, seguiti a partire dal 1830 circa da investitori statunitensi, che impiantarono coltivazioni di canna da zucchero e alberi di ananas. Il governo USA non pose dazi sull’importazione di prodotti hawaiani, facendo schizzare in alto l’esportazione a proprio favore di zucchero e ananas. Per gli hawaiani l’arrivo dei bianchi fu catastrofico, per le malattie che portarono con sé e che diffusero. La popolazione locale crollò da un totale stimato di quasi 400.000 hawaiani a poco meno di 60.000 nel 1870. Molti indigeni persero le loro proprietà e dovettero mettersi a lavorare nelle piantagioni dei bianchi. Ci furono immigrazioni anche di cinesi, giapponesi e portoghesi, che coltivavano i campi per un salario irrisorio. La regina Lili‘uokalani osservava tale sviluppo con preoccupazione e cercò di equiparare gli interessi dei locali e dei nuovi immigrati. Lili‘uokalani era la prima donna a diventare regina, si batté per la conservazione della cultura hawaiana, prese posizione a favore di una maggiore libertà per donne e fanciulle e si dilettò di poesia. I cittadini statunitensi che vivevano nelle Hawaii come facoltosi proprietari di piantagioni si diedero da fare per rovesciare la monarchia locale: col sostegno del diplomatico statunitense John Stevens chiamarono in aiuto le forze armate USA e il 17 gennaio 1893 ci fu il colpo di Stato. Dall’incrociatore corazzato Boston scesero a Honolulu 162 marines armati fino ai denti. La regina evitò di contrastare gli invasori, per scongiurare spargimenti di sangue; sapeva bene, infatti, che un incidente violento sarebbe stato sfruttato come pretesto per una escalation, tanto per usare un termine abbastanza in voga ai giorni nostri. Il presidente democratico Grover Cleveland, che assunse l’incarico il 4 marzo 1893, condannò il colpo di mano nel discorso sullo stato della nazione che tenne davanti alle camere congiunte il 18 dicembre dello stesso anno, asserendo che era un’onta per l’onore della nazione statunitense. «Con un atto di guerra, sostenuto da un rappresentante del governo statunitense, ma senza l’approvazione del Congresso, è stato rovesciato il governo di un paese debole, ma amico». Cleveland licenziò John Stevens, il diplomatico che si era prestato a organizzare il colpo di Stato, e a parole si impegnò a ripristinare la monarchia nelle Hawaii. Ma nell’arcipelago fu proclamata la repubblica e il produttore di banane Sanford Dole ne diventò il primo e unico presidente senza indire le elezioni. I golpisti emanarono una nuova costituzione, che concedeva il voto e la possibilità di accedere a cariche importanti solamente ai nemici della monarchia, oltre che a pochi indigeni (la minoranza asiatica fu esclusa). La regina Lili‘uokalani fu arrestata il 16 gennaio 1895, condannata per alto tradimento e rinchiusa nel palazzo Iolani a Honolulu. James Dole, cugino del golpista Sanford Dole, fondò nel 1901 la Hawaiian Pinapple Company e stampò il suo cognome a lettere rosse su tutte le confezioni di frutti e succo d’ananas che esportava con successo e profitto. L’azienda Dole, con sede centrale in California, esiste ancora oggi ed è uno dei più grandi fornitori di frutti tropicali coltivati in America Latina, in Thailandia, nelle Filippine e nelle Hawaii. La Dole è stata continuamente accusata di sfruttare i lavoratori nelle piantagioni e di utilizzare diserbanti nocivi alla salute. Il 4 marzo 1897 il presidente Cleveland, che non puntava a rinnovare il suo mandato, fu sostituito dal repubblicano William McKinley, di orientamento smaccatamente imperialista. La guerra contro la Spagna, combattuta non solo a Cuba e Porto Rico ma anche nelle Filippine (soprattutto la sanguinosa guerriglia dei primi del novecento), le Hawaii mostrarono la loro indispensabilità. «Abbiamo bisogno delle Hawaii, esattamente come avevamo bisogno della California, anzi persino di più», dichiarò McKinley, «è il nostro destino palese» (Manifest Destiny). Il presidente sostenne con convinzione che il suo paese aveva la missione divina di espandersi, per dimostrare al resto del mondo il modus vivendi di una società libera e devota al Signore. Il 7 luglio 1898, dietro proposta di McKinley, con una dichiarazione congiunta del Senato e della Camera dei rappresentanti, ci fu l’annessione delle Hawaii. Il regno insulare fu cancellato con un tratto di penna e acquisito dagli USA come propria colonia senza sparare un sol colpo. Sulla residenza della regina Lili‘uokalani fu ammainata la bandiera hawaiana e issata quella a stelle e strisce. Il golpista Sanford Dole venne nominato primo governatore della colonia, la regina abdicò e da quel momento le Hawaii furono anche formalmente territorio degli USA. La lingua hawaiana fu sostituita dall’inglese. Come era già successo a Cuba con Guantanamo, anche nelle Hawaii fu creata una base della Marina militare statunitense: Pearl Harbor, sull’isola di O‘ahu. Solamente dopo la seconda guerra mondiale, nel 1959, le Hawaii furono ammesse nella federazione statunitense come cinquantesimo Stato. L’ingiustizia commessa rimase per molto tempo un tabù. Si è dovuto aspettare fino al 23 novembre 1993 perché il presidente Bill Clinton firmasse una risoluzione, nella quale il Congresso statunitense chiedesse «scusa per aver rovesciato il regno delle Hawaii» e «per aver privato gli hawaiani dei diritti all’autodeterminazione» Originally posted in:
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"I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando"

Purgatorio, canto XXIV

Per me, la scrittura è questo e credo che i miei due amori, Dante e San Giovanni apostolo, la rappresentino alla perfezione.

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«Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io;
e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio.»
(Rut 1:16)

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"Vedesti", disse, "quell'antica strega

che sola sovr'a noi ormai si piagne;

vedesti come l'uom da lei si slega.

Bastiti, e batti a terra le calcagne;

li occhi rivolgi al logoro che gira

lo rege etterno con le ruote magne".

Purgatorio, canto XIX, vv. 58-63

Siamo alla fine del girone degli accidiosi e Dante fa un sogno: una femmina "balba (balbuziente)", cieca, storpia a mani e piedi e dal colorito smorto. Ma l'essere umano non la vede nel suo reale aspetto, bensì attraverso il filtro del suo richiamo seduttivo. Questa femmina, infatti, è un'allegoria dell'incontinenza verso i piaceri terreni, in particolare l'avarizia, la lussuria e la gola, puniti nei gironi successivi. È quindi, questo, un sogno che anticipa quello che Dante dovrà incontrare nel suo viaggio.

Al suo risveglio, Virgilio nota che la sua mente è ancora occupata dal ricordo del sogno e lo incita a passare oltre attraverso i versi che ho scelto di riportare.

Virgilio è sbrigativo e lo esorta a non perdere tempo a rimuginare sul peccato, ma di andare avanti e guardare alle cose celesti.

Troppo spesso, di fronte alle miserie che ci abitano, ci crogioliamo nel nostro non essere degni di accostarci ai santi, troppo spesso ci giudichiamo "troppo peccatori" e questo giudizio implacabile si pone come un ostacolo al cammino verso Dio.

Ma, una volta preso atto di non essere immacolati e perfetti secondo la nostra idea di perfezione, dobbiamo avere il coraggio di presentarci a Dio così come siamo: pieni di difetti, manchevoli, fallibili.

I nostri genitori non ci amano forse nonostante i nostri errori? E come potrebbe Dio non farlo, se sinceramente ci volgiamo a Lui con tutto il carico di vergogna, ma anche di devozione, che portiamo addosso?

Ma a Lui dobbiamo guardare, non a noi stessi, perché dalle tenebre si esce grazie alla luce, e la luce che possiamo trovare in noi non è altro che luce divina.

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