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Caligorante

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Accadeva ottant’anni fa. 11 gennaio 1944. Si conclude il processo di Verona. Galeazzo Ciano, Emilio De Bono, Luciano Gottardi, Giovanni Marinelli e Carlo Pareschi vengono condannati a morte per aver sfiduciato Mussolini nella seduta del Gran consiglio del 25 luglio 1943. La richiesta di processare i felloni “badogliani” sortì dal congresso del partito fascista repubblicano, che si tenne a Verona a partire dal 14 novembre 1943. I lavori si svolsero nel salone principale di Castelvecchio, in un clima molto acceso, scandito da numerose manifestazioni di odio e propositi di vendetta da parte dei delegati nei confronti di chi aveva tradito la causa. L’assise si concluse con l’approvazione di un Manifesto in 18 punti, redatto personalmente da Mussolini con la partecipazione di alcuni collaboratori e del plenipotenziario tedesco, ambasciatore Rudolf Rahn. Il processo che doveva placare il desiderio di rivalsa dei fascisti più puri finì però per assolvere tutti quelli che non avevano reagito all’estromissione di Mussolini, come Carlo Scorza – ultimo segretario del PNF – e Alessandro Tarabini, i quali il 20 gennaio 1944 furono deferiti al Tribunale Speciale per la Difesa dello Stato. Il 15 aprile ebbero il processo e il 20 furono assolti. È strano come il Comandante della Milizia, Enzo Galbiati, figurasse tra i testimoni, ma non tra gli imputati, del processo di Verona. Alla fine di gennaio del 1944 cominciarono anche i processi ai capi militari accusati di tradimento. Il 28 vennero deferiti al Tribunale Speciale i generali Mario Robotti, Comandante della II armata; Italo Gariboldi, Comandante dell’VIII armata; Mario Vercellino, Comandante la IV armata; Mario Caracciolo di Feroleto, Comandante della V armata; Ezio Rosi e Carlo Vecchiarelli, Comandanti delle armate in Montenegro, Grecia e Albania; Riccardo Moizo, Alto Commissario per Lubiana; gli Ammiragli Inigo Campioni, Luigi Mascherpa, Francesco Zannoni, Gino Pavesi, Priamo Leonardi. Poi toccò qualche giorno dopo ai generali Renzo Dalmazzo, Comandente della IX armata, e Antonio Scuero, e all’Ammiraglio Pellegrino Matteucci. Zannoni, Vercellino e Matteucci saranno assolti in istruttoria. Tutti gli altri verranno rinviati a giudizio: sarebbero stati colpevoli “come esecutori e complici della capitolazione” per aver “senza essere stati attaccati dal nemico, deposto le armi ed ammainata la bandiera sui territori [specie nei balcani NdR] che erano stati conquistati col sangue, abbandonando le popolazioni italiane al massacro compiuto dagli elementi locali, nemici dell’Italia”. Alcuni erano latitanti, come Gino Pavesi e Priamo Leonardi. Il processo si chiuse con assoluzioni o condanne pro forma fra i dieci e i quindi anni. Per tutti pagarono Campioni e Mascherpa: ci voleva una punizione esemplare della Marina, l’arma infida (come i carabinieri), che aveva ceduto senza lottare e che quasi tutta si era arresa agli alleati, senza quasi combattere, passando addirittura ai loro ordini. L'ammiraglio Campioni, l’8 settembre, era governatore militare dell’Egeo, Mascherpa, della base navale di Lero. Campioni era altamente colpevole per il tribunale di non aver ostacolato gli sbarchi anglo-americani, mentre Mascherpa aveva l’aggravante di essersi battuto per 50 giorni contro i tedeschi. Quanto ai Tribunali Straordinari Provinciali c’è da dire che il 6 giugno 1944 archiviarono tutti i casi non riguardanti iscritti al Partito Nazionale Fascista e mandarono liberi tutti gli imputati. E in data 28 ottobre 1944 vennero condonate tutte le pene fino a 3 anni di carcere. Sicuramente Mussolini avrebbe avuto più ragione nel condannare i contumaci Pavesi e Leonardi, per aver abbandonato a cuor leggero le fortezze dell'isola di Pantelleria e della città di Augusta. Ma la Marina in qualche modo doveva pagare. Campioni e Mascherpa furono fucilati due giorni dopo la sentenza, il 24 maggio 1944 a Parma. Originally posted in:
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"I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando"

Purgatorio, canto XXIV

Per me, la scrittura è questo e credo che i miei due amori, Dante e San Giovanni apostolo, la rappresentino alla perfezione.

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«Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io;
e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio.»
(Rut 1:16)

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"Vedesti", disse, "quell'antica strega

che sola sovr'a noi ormai si piagne;

vedesti come l'uom da lei si slega.

Bastiti, e batti a terra le calcagne;

li occhi rivolgi al logoro che gira

lo rege etterno con le ruote magne".

Purgatorio, canto XIX, vv. 58-63

Siamo alla fine del girone degli accidiosi e Dante fa un sogno: una femmina "balba (balbuziente)", cieca, storpia a mani e piedi e dal colorito smorto. Ma l'essere umano non la vede nel suo reale aspetto, bensì attraverso il filtro del suo richiamo seduttivo. Questa femmina, infatti, è un'allegoria dell'incontinenza verso i piaceri terreni, in particolare l'avarizia, la lussuria e la gola, puniti nei gironi successivi. È quindi, questo, un sogno che anticipa quello che Dante dovrà incontrare nel suo viaggio.

Al suo risveglio, Virgilio nota che la sua mente è ancora occupata dal ricordo del sogno e lo incita a passare oltre attraverso i versi che ho scelto di riportare.

Virgilio è sbrigativo e lo esorta a non perdere tempo a rimuginare sul peccato, ma di andare avanti e guardare alle cose celesti.

Troppo spesso, di fronte alle miserie che ci abitano, ci crogioliamo nel nostro non essere degni di accostarci ai santi, troppo spesso ci giudichiamo "troppo peccatori" e questo giudizio implacabile si pone come un ostacolo al cammino verso Dio.

Ma, una volta preso atto di non essere immacolati e perfetti secondo la nostra idea di perfezione, dobbiamo avere il coraggio di presentarci a Dio così come siamo: pieni di difetti, manchevoli, fallibili.

I nostri genitori non ci amano forse nonostante i nostri errori? E come potrebbe Dio non farlo, se sinceramente ci volgiamo a Lui con tutto il carico di vergogna, ma anche di devozione, che portiamo addosso?

Ma a Lui dobbiamo guardare, non a noi stessi, perché dalle tenebre si esce grazie alla luce, e la luce che possiamo trovare in noi non è altro che luce divina.

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