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Caligorante

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Accadeva trecentoquindici anni fa. 12 gennaio 1709. Un'ondata di freddo intenso si abbatte sulla Francia per ben due mesi. La costa atlantica e la Senna congelarono, le coltivazioni andarono perdute e almeno 24.000 parigini perirono. L'episodio rappresentò il capitolo finale della «piccola era glaciale» (1570 e inizio 1700) che vide le temperature abbassarsi con variazioni da tre a cinque gradi, dando avvio a una rivolta della natura che sortì effetti devastanti sui raccolti. A rafforzare i presagi di sventura ci pensò l'apparizione di una cometa nei cieli d'Europa, a tratti visibile anche alla luce del sole, il 14 novembre 1680, e poi di nuovo il 24 dicembre. Fin dall’antichità le comete erano interpretate come dei segni celesti, per cui più di una persona, in quei giorni, scrutò il cielo notturno con un sentimento di paura e ansia. Il terrore dilagò perfino nelle colonie e in Cina, dove la cometa venne letta come annuncio di castighi portentosi. L’inverno del 1680 fu molto freddo, le notti limpide e gelate. L’Inghilterra elisabettiana si salvò da una tempesta artica, ma questo improvviso “cambiamento climatico” ebbe anche altri volti, non tutti provvidenziali. Tra il 1400 e il 1550 il Tamigi conobbe cinque gelate (1408, 1435, 1506, 1514, 1537), che salirono a dodici nell’intervallo tra il 1551 e il 1700 (1565, 1595, 1608, 1621, 1635, 1649, 1655, 1663, 1666, 1677, 1684 e 1695). Uno di quegli anni, il 1666, esemplifica in modo tangibile un altro aspetto della piccola era glaciale: non solo le temperature si andavano raffreddando, ma le perturbazioni atmosferiche si facevano sempre più estreme e imprevedibili. Ai rigori dell’inverno subentravano primavere ed estati insolitamente torride, con scarse precipitazioni. L’agricoltura non era la sola a soffrirne: l’orditura dei solai e le travi degli edifici, molti dei quali costruiti su intelaiature lignee a traliccio, si erano talmente seccate che un piccolo fuoco divampato in una panetteria di Pudding Lane bastò per trasformare l’intera Londra in un mare di fiamme. Tra il 2 e il 5 settembre 1666 (666: ahi!) oltre 13.000 abitazioni furono ridotte in cenere, lasciando 80.000 persone senza alloggio. Degna di nota è anche la correlazione tra le gelate di quegli anni e le successive ondate di proteste sociali e ribellioni violente indotte dal prezzo proibitivo delle granaglie e propagatesi in tutto il paese. Tra il 1347 e il 1550 i disordini legati al prezzo dei cereali sono meno di una ventina, anche se la frammentarietà delle fonti non consente valutazioni precise. Alcuni storici calcolano che tra il 1585 e il 1660, sulle sole Isole Britanniche, gli episodi del genere siano stati non meno di una settantina. Nel 1595, anno di grandi gelate, William Shakespeare ha scritto la sua tragedia, Riccardo III. Tenuto conto delle circostanze meteorologiche, l’esordio del celeberrimo monologo del protagonista, «Now is the winter of our discontent», acquisisce una pregnanza insolita. Una seconda opera teatrale che in questa luce rivela aspetti di grande attualità è Coriolano, il dramma di un valoroso condottiero romano ripudiato dal suo popolo, che non a caso si apre con una sollevazione dei cittadini che chiedono di aprire i granai pubblici. Il testo è del 1608, un anno in cui non solo il Tamigi era ghiacciato, ma in cui Londra fu teatro di una sommossa contro il rincaro del pane. Shakespeare non è il solo poeta elisabettiano capace di descrivere l’inverno con immagini di forte effetto. Quando nel 1612, nel Diavolo bianco, John Webster parla di «Inverni gelidi, inverni russi, talmente sterili che la natura sembra avere dimenticato la primavera», pare di cogliere una reminiscenza dei coevi, interminabili, inverni inglesi. In Webster trova riscontro anche un secondo aspetto del cambiamento climatico. Nel Sud dell’Inghilterra la coltura della vite era diffusa fin dall’epoca dei romani. Nel mite XIV secolo i vinai di oltremanica erano arrivati addirittura a esportare il loro prodotto in Francia (con grave smacco dei vignaioli locali). Con l’arrivo del XVII secolo, però, l’ondata di freddo stronca alla base la viticoltura inglese, come puntualmente si evince anche dai versi: Quando si piantano le vigne in climi freddi, Nutrendole col sangue, senza gusto È il grappolo che cogli alla vendemmia E stronca il verno pampini e radici. Nel Tamerlano di Christopher Marlowe (1587), un autore leggermente più anziano di Shakespeare e Webster, l’atmosfera angosciosa che regnava negli anni della piccola era glaciale viene espressa con parole ancora più icastiche: «L’Europa, dove il sole si nasconde / Tra gelide meteore e freddi ghiacci». Francis Bacon, lord cancelliere, nonché alfiere della scienza moderna, saggista e genio universale, era affascinato dai capricci del tempo atmosferico. Era deciso a estrapolare un modello logico da quei ghiribizzi in apparenza fortuiti: «Si dice che qualcuno in Olanda abbia osservato che ogni trentacinque anni il ciclo delle annate e dei climi si ripete sempre uguale a se stesso, con grandi gelate, piogge torrenziali, grandi siccità, inverni caldi, estati tiepide ecc.». I londinesi non disdegnavano di monetizzare le mutate circostanze. Il congealed cold del Tamigi ghiacciato si trasformava in un terreno di svaghi popolari. Sulla superficie indurita del fiume si tenevano in quei mesi delle frost fairs, sorta di fiere invernali visitate da migliaia di persone, con tanto di chioschi, tendoni e perfino grandi falò all’aperto dove venivano arrostiti buoi interi. Alcuni stampatori intraprendenti erano arrivati a trasportare un torchio tipografico sulle lastre di ghiaccio e tiravano fogli volanti come souvenir sotto gli occhi divertiti dei visitatori. Mentre i londinesi facevano festa sul Tamigi, però, le rigide invernate del tardo XVI secolo portavano un duro colpo alla popolazione francese. Le campagne erano prostrate dalle guerre di religione: tra il 1562 e il 1598 le sanguinose spedizioni militari, le carestie e le pestilenze erano costate la vita a quasi quattro milioni di francesi. L’inasprimento del clima avrebbe ulteriormente esacerbato le condizioni di vita della popolazione rurale. Nel 1570 erano ghiacciati perfino i fiumi della Provenza e della Linguadoca, nel 1594 il gelo aveva reso inaccessibile il porto di Marsiglia. L’alternanza di estati torride e piovose era una costante minaccia per la cerealicoltura e la viticoltura. Vi ricorda qualcosa? Originally posted in:
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"I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando"

Purgatorio, canto XXIV

Per me, la scrittura è questo e credo che i miei due amori, Dante e San Giovanni apostolo, la rappresentino alla perfezione.

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«Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io;
e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio.»
(Rut 1:16)

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"Vedesti", disse, "quell'antica strega

che sola sovr'a noi ormai si piagne;

vedesti come l'uom da lei si slega.

Bastiti, e batti a terra le calcagne;

li occhi rivolgi al logoro che gira

lo rege etterno con le ruote magne".

Purgatorio, canto XIX, vv. 58-63

Siamo alla fine del girone degli accidiosi e Dante fa un sogno: una femmina "balba (balbuziente)", cieca, storpia a mani e piedi e dal colorito smorto. Ma l'essere umano non la vede nel suo reale aspetto, bensì attraverso il filtro del suo richiamo seduttivo. Questa femmina, infatti, è un'allegoria dell'incontinenza verso i piaceri terreni, in particolare l'avarizia, la lussuria e la gola, puniti nei gironi successivi. È quindi, questo, un sogno che anticipa quello che Dante dovrà incontrare nel suo viaggio.

Al suo risveglio, Virgilio nota che la sua mente è ancora occupata dal ricordo del sogno e lo incita a passare oltre attraverso i versi che ho scelto di riportare.

Virgilio è sbrigativo e lo esorta a non perdere tempo a rimuginare sul peccato, ma di andare avanti e guardare alle cose celesti.

Troppo spesso, di fronte alle miserie che ci abitano, ci crogioliamo nel nostro non essere degni di accostarci ai santi, troppo spesso ci giudichiamo "troppo peccatori" e questo giudizio implacabile si pone come un ostacolo al cammino verso Dio.

Ma, una volta preso atto di non essere immacolati e perfetti secondo la nostra idea di perfezione, dobbiamo avere il coraggio di presentarci a Dio così come siamo: pieni di difetti, manchevoli, fallibili.

I nostri genitori non ci amano forse nonostante i nostri errori? E come potrebbe Dio non farlo, se sinceramente ci volgiamo a Lui con tutto il carico di vergogna, ma anche di devozione, che portiamo addosso?

Ma a Lui dobbiamo guardare, non a noi stessi, perché dalle tenebre si esce grazie alla luce, e la luce che possiamo trovare in noi non è altro che luce divina.

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