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Caligorante

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Accadeva cinquantatré anni fa. 25 novembre 1970. Lo scrittore giapponese Yukio Mishima si toglie la vita, dopo aver occupato l’ufficio del generale Mashita, al Ministero della Difesa, con la complicità di quattro cadetti equipaggiati con armi bianche. I cadetti facevano parte della sua milizia personale, la Tate no Kai o Società dello scudo, fondata da Mishima nel 1968 e composta da studenti con idee politiche di destra e la passione per le esercitazioni militari. Due di questi, Morita e Ogawa, srotolarono dal balcone striscioni con le richieste e lanciarono volantini con un lungo proclama firmato da Mishima. Il manifesto, che denunciava la perdita dei valori tradizionali e la caduta del Giappone sotto il giogo delle potenze occidentali, terminava con un appello che invitava al riscatto attraverso il sacrificio supremo e biasimava il tradimento del sentimento nazionale, sancito con la Costituzione del 1947 e la resa ai nemici. Alle 12,00 in punto Mishima comparve sul balcone, la fronte cinta da una fascia con il simbolo del Sol Levante e le mani avvolte in guanti bianchi macchiati di sangue. Iniziò il suo discorso. Nessuno lo ascoltava, nessuno sembrava interessato; e se qualcuno lo fosse stato, sarebbe stato impossibile capire quello che diceva in mezzo al frastuono delle grida dei soldati che non facevano altro che deriderlo e insultarlo. Nella stanza del comandante uno dei cadetti minacciava di uccidere l'ostaggio se non avessero ordinato di fare silenzio. L'ordine non sortì alcun effetto. Mishima prese a gridare disperatamente la sostanza del suo manifesto, guardando di continuo l'orologio. Tentò un ultimo appello finale con cui chiedeva ai soldati di unirsi a lui e ai suoi cadetti nel sacrificio supremo. Fece cenno a Morita di avvicinarsi, e l'uno a fianco all'altro gridarono per tre volte Tennō heika banzai (Vita eterna all'imperatore); poi subito rientrarono e la folla sottostante tacque di colpo. Si portò in un angolo della stanza dove non potevano arrivare sguardi e telecamere e si accovacciò con la giacca aperta, mentre il generale Mashita, a cui era stato tolto il bavaglio, gli gridava di non fare pazzie. Morita si pose dietro di lui con l'antica spada di Magoroku sollevata sul capo. Il morituro serrò la spada corta con entrambe le mani, lanciò ancora una volta il suo ultimo saluto all'imperatore e si conficcò la lama nell'addome; indi iniziò ad aprirsi il ventre tirando la spada verso destra. Riuscì a portare a termine il taglio rituale, poi, chiedendo a Morita di fare presto, cadde in avanti col capo sul pavimento. Morita calò subito la lama sul suo collo, ma mancò il bersaglio, ferendogli invece profondamente le spalle e la schiena. Morita colpì ancora, ma ancora una volta mancò il bersaglio, squarciando ancor più atrocemente il corpo del moribondo. Un terzo disperato colpo raggiunse il collo, senza peraltro riuscire a decapitarlo completamente. Furu-Koga prese in mano la spada e lo decapitò di netto. Morita ripeté gli stessi gesti del suo leader, ma riuscì a praticarsi un piccolo taglio superficiale. Subito esortò il suo compagno a colpire, e Furu-Koga lo decapitò al primo colpo. I tre cadetti sopravvissuti allinearono le teste decapitate sul pavimento, e stringendosi forte le mani si inchinarono devotamente verso di loro, iniziando a pregare insieme al generale. Alla fine slegarono il generale e lo condussero nel corridoio per consegnarlo ai suoi uomini, quindi porsero i polsi e si fecero ammanettare. Il seppuku ricorre in tutta l'opera del controverso autore giapponese: in Cavalli in fuga, vi è il suicidio in massa dei samurai ribelli del 1877. Nell’agosto 1970, il biografo inglese di Mishima si stupisce di sentirlo dichiarare pasolinianamente che il Giappone è sotto l’influsso di una maledizione: “Denaro e materialismo regnano incontestati; il Giappone moderno è brutto, è vittima del serpente verde” [simbolo di un Male divenuto irreparabile NdR]. Non sfuggiremo a quella maledizione.” Con quel gesto estremo volle uscire da una realtà segnata dal disonore e dalla perdita di senso e di valori; un sacrificio in nome degli alti ideali contenuti in Hagakure, il suo libro preferito, la bibbia dei samurai. L’evento destò scalpore, suscitando molteplici interpretazioni e domande: era l'eroica protesta di un fiero nazionalista o l’ultima rappresentazione, meravigliosa e perversa, di un artista geniale e folle che aveva fatto della propria vita un’opera d’arte? E poi il mistero della spada: che fine ha fatto la katana con cui era stato decapitato? Nel 1970 Mishima aveva appena terminato l’ultimo romanzo (La decomposizione dell'angelo) della tetralogia “Il mare della fertilità”; lo stesso anno la rivista «Esquire» lo citò come uno dei cento autori più influenti al mondo, senza dire però chi stava influenzando. Dopo la tragica e plateale fine, la sua opera spopolò presso il grande pubblico occidentale; divenne il romanziere e il drammaturgo giapponese di maggior successo e più tradotto. Quand'era in vita era stato candidato tre volte al premio Nobel per la letteratura e avrebbe forse potuto vincerlo se non fosse stato per le sue ingombranti concezioni politiche. Il noto autore “liberal” americano Gore Vidal lo etichettò come scrittore egocentrico di serie B, interessato a un unico argomento: sé stesso. Mishima, sposato e con due figli, aveva diversi amanti uomini; nel suo romanzo Colori proibiti possiamo leggere che gli omosessuali sono i mariti migliori. Pare abbia scoperto tardi gli amori eterosessuali: all’età di trentadue anni telefonò a un amico per annunciargli di essere finalmente riuscito a fare sesso con una donna. Un ideale samurai che sicuramente praticava era il sogai, cioè l’idea di prendere le distanze dalla cultura convenzionale, manifestando una forte fede nella propria condizione elitaria. Mishima lo fece in un modo che nessun samurai avrebbe approvato, cioè diventando un uomo di lettere decadente come l'amato Gabriele D'Annunzio; guerriero non lo fu mai, dato che praticava le arti marziali in maniera mediocre, per hobby. L'Hagakure ammonisce: «Un samurai che pratica un’arte è un artista e non un samurai». Questa, tuttavia, è una forzatura e vi sono molti esempi storici di samurai abili nel maneggiare la spada e la penna. Originally posted in:
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“Quello che sta avvenendo a Gaza è come se noi, per catturare Matteo Messina Denaro, avessimo raso al suolo la provincia di Trapani, anzi è peggio, perché mentre lui non si è mai mosso dalla provincia di Trapani, i capi di Hamas di certo non sono a Gaza.
Eppure, per comprendere la complessità del conflitto senza ridurla a sterili tifoserie, studiare la storia è un elemento essenziale: “È ovvio che se ci fermiamo all’istantanea degli ultimi sei mesi, con il massacro e i crimini di guerra di Netanyahu e del suo esercito ai danni della popolazione di Gaza, tutte le ragioni del mondo sembrano essere solo da una parte, ma le cose sono più complesse di come sembrano.
È difficile immaginare quali possano essere le vie d’uscita da questo conflitto fino a quando non emergeranno figure che sappiano ‘andare oltre se stessi’ come avvenuto in Sudafrica quando si mossero i primi passi per smantellare l’apartheid.
È ovvio che ci siano proteste se pensiamo che a Gaza si contano 35 mila morti in sei mesi, su due milioni e mezzo di abitanti, quasi tutti civili e bambini. Per fare un paragone basti pensare che in due anni e due mesi in Ucraina ci sono state 10.000 vittime civili su 40 milioni di abitanti, eppure a Netanyahu nessuno osa dire nulla e nei confronti di Israele non è scattata ancora nessuna delle sanzioni che hanno colpito i russi a poche ore dall’aggressione.
Quindi la rabbia è perfettamente comprensibile, rimarca il direttore del Fatto, “però oltre alla rabbia bisognerebbe studiare la storia, per capire come siamo arrivati fin qui è come se ne può uscire”.
cit. Marco Travaglio
"I' mi son un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando"

Purgatorio, canto XXIV

Per me, la scrittura è questo e credo che i miei due amori, Dante e San Giovanni apostolo, la rappresentino alla perfezione.

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«Non pregarmi di lasciarti, per andarmene via da te; perché dove andrai tu, andrò anch'io;
e dove starai tu, io pure starò; il tuo popolo sarà il mio popolo, e il tuo Dio sarà il mio Dio.»
(Rut 1:16)

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