Il 411 a.C. Non era un anno florido per la democrazia ateniese: la guerra del Peloponneso era nel suo ventesimo anno, aveva appena perso un importante esercito, coi suoi migliori uomini, in Sicilia, nel catastrofico assedio di Siracusa, e la sconfitta di fronte a Sparta pareva all'orizzonte. Fu allora che il suo famoso teatro vide presentare una commedia del celebre Aristofane che, per le sue caratteristiche, è famosa e rappresentata ancor oggi (io stesso la vidi due volte in pochi anni). In “Lisistrata”, l'eroina che dà il nome all'opera promuove uno dei più straordinari scioperi della Storia: quello sessuale. Sino a che gli uomini non verranno a più miti consigli e riporteranno la pace su tutta la Grecia, le donne si asterranno dai doveri coniugali, ad Atene come a Sparta e ovunque si parli greco. A questo si aggiungeva l'occupazione dell'Acropoli e il sequestro del tesoro della Lega di Delo, di cui Atene era il capo (dimostrando che Aristofane era anche conscio che, affinché un colpo di Stato riesca, non basta il ricatto sessuale ma bisogna avere sotto controllo anche la moneta e i centri nevralgici del potere). Ma l'aspetto più interessante per il pubblico, all'epoca, era questo singolare rovesciamento di fronte che vedeva avere il coltello dalla parte del manico le donne, che nella società ateniese non è che fossero sottomesse: non esistevano proprio. Caso estremo anche nelle società antiche, che, dall'Egitto alla Persia, prevedevano l'associazione al potere e diritti patrimoniali i quali, in Grecia, erano semplicemente inesistenti per l'altra metà del cielo. Le donne di Aristofane, invece, facendo leva su uno dei pochissimi strumenti che restava loro in quella che ancora oggi qualche scemo pensa sia uno dei primi modelli delle nostre democrazie, riuscivano a ridurre all'impotenza (in tutti i sensi) i consorti, fossero essi strateghi dell'esercito o supremi giudici del Pritaneo, sino a piegare le autorità greche ad una pace generale tanto agognata quanto, ahimé, lontana nella realtà (essa verrà raggiunta solo sette anni dopo e con la totale sconfitta ateniese). Il pensiero che le donne, che ad Atene e nel resto della Grecia erano mute, obbligate ad obbedire al padre o al marito e neppure potevano andarsene in giro senza accompagnatore (come oggi nei più retrivi paesi musulmani) potessero decidere dei destini e delle politiche della collettività era così fantasioso che solo in una commedia poteva venir accettato.

L'idea di uno sciopero generale delle donne, anche quando non comprendente le attività sessuali, è sempre rimasta affascinante e, se in letteratura ispirò Giulio Cesare Croce col suo “Bertoldo”, fu di sicuro una delle fonti presenti ai movimenti per i diritti delle donne (le “suffragette” in primis) ben prima del sorgere del femminismo moderno. In Islanda, poi, esso prese corpo nel 1975, quando effettivamente le donne di tutto il Paese incrociarono le braccia per un giorno, anche se la ragione fu un generico “ricordare il ruolo femminile nella società”. La cosa che però mi ha spinto a scrivere è che da due giorni i giornali e i canali televisivi di disinformazione italiani ci stanno facendo sapere con entusiasmo che in Islanda le donne stanno scioperando di nuovo, e stavolta contro il “gender gap”, che, per i poveri cristi che non sono in linea col gergo anglo-maccheronico in voga a sud delle Alpi, è la differenza fra salari maschili e femminili a parità di mansioni lavorative. Mi sono fiondato a leggere, pieno di sgomento: vuoi vedere che nei Paesi scandinavi esistono ancora situazioni legali da anteguerra, con discriminazioni retributive legali in base al sesso del lavoratore? Addirittura qualche corrispondente aggiungeva che la protesta era guidata da “donne e persone non binarie”, cosa che aumentava la mia sorpresa: dopo averci messo un po' a capire che “persone non binarie” non era un'espressione dadaista o una metafora tranviaria, ma si riferiva alla solita platea di chi ha preferenze sessuali anormali, mi sono chiesto se l'Islanda che avevo visto io, con bandiere arcobaleno esposte in ogni dove più di quella nazionale, fosse quindi un posto in cui essere gay o lesbica comportasse rischi o discriminazioni come in Iran o Nigeria. Mi son messo a controllare le statistiche ufficiali islandesi e a leggere notizie pubblicate in loco (in inglese, non padroneggiando quella bellissima e arcaica lingua), e il mio stupore è rimasto, solo ha cambiato di segno.


L'Islanda, come scrivevano (e ancora scrivono, senza porsi domande sull'incoerenza della cosa) tutti i giornali nostrani, è stata dichiarata nel 2019 “Il Paese più femminista al mondo” dal World Economic Forum, che se per me non fa testo come la maggior parte dei carrozzoni finanziati dai governi mondiali in stile ONU, è una fonte che la stampa ci spaccia come più che affidabile, dato che la usano per dirci che l'Islanda è il posto in cui “è meglio vivere se sei donna”. Per nove anni di fila al primo posto nella classifica dei virtuosi (l'Italia sta attorno al 90°, per farci un'idea), viene descritta come “un Paese in cui l'equità è presente, non futuro”, nel documentario “A land shaped by women”, citato da Elle per celebrare quel piazzamento. Ma allora, mi son chiesto, perché il divario salariale? Mi hanno risposto gli stessi articoli del 2019: dall'anno prima, per legge, esso è stato formalmente abolito decretando che, a parità di mansione, i salari devono essere identici per impiegati/lavoratori uomini e donne. Che poi io dubito che reali differenze ci fossero anche prima: ho lavorato dal 2005 in Italia, Francia, Inghilterra ed Estonia, e ovunque i contratti di lavoro nazionali erano unici, e non in base al sesso. Figuriamoci se nei paesi Scandinavi poteva essere peggio. Ma allora per cosa protestano in Islanda?

Seguendo ad esempio uno dei tre canali di news 24/24, probabilmente Raignù, in collegamento col console italiano a Reykjavik, che è donna (strano!) e islandese, ho atteso che la domanda venisse posta. Ma nulla di ciò: i quesiti erano generalissimi, della serie “Ma in Islanda il welfare funziona o no?”, e le risposte prevedibilissime (“Sì, ma si può migliorare”, e grazie mille signora: ci mancava che ammettesse di essere il paradiso terrestre mentre protesta per non si sa cosa). Allora ho ripreso a leggere ed ascoltare: sì, il salario è per legge identico, ma ci sono situazioni di squilibrio dovute al fatto che “le donne, fuori dal lavoro retribuito, continuano a lavorare in modo gratuito”. E qui mi si è accesa la lampadina. In pratica, non potendo dimostrare che in Islanda i datori di lavoro abusino illegalmente delle proprie dipendenti levandogli sottobanco soldi con qualche sotterfugio, questi vanno a pescare le attività casalinghe come preparare la merenda ai bambini o fare il bucato per dirti che lì sta la discriminazione: sinché non pagheranno le casalinghe come se fossero ancora in ufficio, ci sarà un “gender gap”. Ed io, scemo, che per anni ho lavorato vivendo da solo, e dopo l'orario d'ufficio mi facevo da mangiare e stiravo le camicie a gratis senza neppure sospettare di essere vittima di una truffa! Avrei dovuto chiedere alla multinazionale che mi impiegava di aumentarmi lo stipendio per aver spolverato la casa e fatto uno spuntino anche nei fine settimana. O siccome sono uomo non vale?

Già qui si sente la puzza di mistificazione, che presto aumenterà ancora. Una delle organizzatrici dello “sciopero” accusa: il 40% delle donne ha subito abusi sessuali. Una situazione mostruosa a cui bisogna porre freno. E qui anche il più improvvido si sentirà bellamente preso per i fondelli. Ora, io vivo in Sardegna, nella provincia profonda, società ancora per certi versi tradizionalista, anche se ampiamente permeata dalle mode e dall'idiozia teleguidata, e sfido chiunque a dire che a livello di rapporti sociali le donne stiano meglio che in Scandinavia. Ebbene, il 40% significa che ogni dieci donne quattro sono state violentate o molestate sessualmente durante la loro vita. Non si salverebbe nessuna famiglia senza almeno un membro femmina che possa raccontare odiose esperienze di questo tipo. Ebbene, nella mia famiglia non mi risulta che alcuna donna abbia avuto questa sfortuna. Né che sia successo a qualcuna delle mie conoscenti. Magari i miei lettori potranno citare una quantità di casi tale da risollevare la media, ma sino a quel momento resterò scettico. Anche perché l'Ufficio Nazionale di Statistica Islandese registra, dal 2006 al 2015 (ultimo anno per cui i dati sono forniti) un numero di reati sessuali che oscillano da nove a tredici (con un solo picco di ventidue) ogni diecimila abitanti. Una media di undicivirgola ogni diecimila all'anno, quindi. Diciamo che si è ancora parecchio lontani dal 40% della popolazione femminile. E se fosse così terribile per le donne islandesi vivere nel loro paese, il tasso di suicidio, già basso (settantacinquesimo posto al mondo, l'Italia all'ottantaduesimo), non sarebbe (come altrove) di sei volte inferiore per le donne rispetto a quello degli uomini.

Ma allora, per cosa protestano le islandesi?

Sarebbe stato bello se i cosiddetti mezzi di informazione si fossero posti la domanda, e avessero cercato conferma nei numeri e nelle leggi, invece di pagare inviati e perdere tempo a ripetersi l'un l'altro, a pappagallo, le stesse banalità prive di appiglio nella realtà, e che fra l'altro declassano a spazzatura tutto quello che loro stessi ci hanno declamato sull'Islanda da anni. Invece tocca, come al solito, prendere per falso a priori tutto quello che dicono, e poi andare a verificare. Che è quello che faccio da anni, con risultati, ahimé, sempre identici.

Pure stavolta i miei peggiori pregiudizi si sono riconfermati trionfalmente. Gente che vorrebbe leggi contro le fake news propala favole palesemente surreali senza neppure prendersi la briga di una ricerca su internet. Di più: senza neppure preoccuparsi se ciò che ci dicono oggi sia coerente con ciò che hanno appena detto ieri. La degenerazione di un movimento femminista che finisce per vivere di miraggi presentata come una grande spinta verso il cambiamento, e non uno, dico non uno che si accorga come tutto quello che chiedono è già lì. Un parlamento per metà composto di donne e un presidente della repubblica donna che scioperano, e non si rendono conto che stanno scioperando contro sé stesse. Ché se avessero ancora della razionalità, farebbero quelle leggi che sono loro in potere di fare (e che però già ci sono), invece di protestare (ma contro chi, ripeto?). Uno spettacolo allucinatorio che spiega meglio di qualsiasi altro mezzo come l'Occidente soffra di gravi forme di ritardo psichico, e purtroppo non esiste medico capace di prescrivere una cura.

Sì, se la Lisistrata di ventiquattro secoli fa era coraggiosa e acuta, quest'ultima pare solo pesantemente rincoglionita (e scusate il francesismo).

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Friedrich von Tannenberg
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