Una delle cose che si sopporta meno dell'italiano è il provincialismo. Che ha molte origini, su cui magari non è il caso di dilungarsi. Resta il fatto che l'italiano ha un'idea di sé che oscilla dall'esaltazione alla demonizzazione su cose di cui non ha l'esclusiva né nell'uno né nell'altro caso.
Quando gli italiani pensano, per esempio, di avere i migliori paesaggi al mondo, non hanno ragione. Come non hanno ragione quando pensano di avere i politici più corrotti, la criminalità più aggressiva. E dunque vivono in una perenne dicotomia tra ciò che vorrebbero o non vorrebbero essere e ciò che sono, nel bene come nel male.

Il punto più eclatante di questa disforia è nel razzismo. Basterebbe aver visitato alcuni paesi anche occidentali per rendersi conto che non è che da quelle parti ci sia il razzismo come fenomeno episodico, semplicemente sono società razziste nel vero senso della parola. Soltanto che si vede meno perché le classi dirigenti, che non hanno in realtà alcuna intenzione di risolvere il problema, hanno lavorato a fondo nel linguaggio così da non combattere a fondo il razzismo, facendolo diventare accettabile. Il razzismo così non entra magari più negli stadi, viene magari sostituito da parole politicamente corrette, ma esiste nel DNA di quei popoli, se è vero come è vero che tantissime aziende americane dell'e-commerce - tutta roba che ho visto con i miei occhi - devono cambiare nomi ai loro dipendenti indiani o pakistani, costringendo loro a darsi un'identità anglosassone, perché si ritiene che il cliente, se interagisce con un Abdul o un Pankaj, possa trovare l'azienda meno professionale e dunque comprare di meno.
Anche per questo, si ha ben ragione di infastidirsi quando, ad intervalli regolari, negli stadi si sentono gli ululati razzisti e assistiamo alle consuete sceneggiate degli intellettuali progressisti. Perché soltanto un provinciale può davvero credere che l'Italia sia un paese razzista. Il nostro è, anzi, forse il paese più aperto che esista almeno in Occidente. E, sia detto per inciso, ormai il campionato italiano è un tale concentrato di multietnicità che se si va a vedere la rosa dell'Udinese, ci si accorge che è piena di giocatori di colore idolatrati da quegli stessi tifosi della squadra friulana che poi hanno prorotto in ululati contro il portiere del Milan, Maignan. Che magari servivano solo a farlo innervosire.
La cosa migliore, in questi casi, a mio avviso, sarebbe ignorare. Fingere che i decerebrati non esistano e continuare a giocare. Dando loro retta, sollevando casi, non soltanto si rischia di creare un effetto emulazione ma, anzi, consegnando la bandiera dell'antirazzismo ai soliti sciacalli del progressismo, anche di produrre un rigurgito razzista di ritorno da parte di gente che non sarebbe razzista ma che associa l'antirazzismo al progressismo e dunque, di riflesso, diventerà razzista.

A tal proposito viene da ripensare a quando, diversi anni fa, su un muretto davanti casa mia, a Napoli, a fianco di un "Juve Merda" e di un "romano infame per te ci son le lame", comparve un lungo monologo a pennarello dove l'autore - un idiota totale o un geniale umorista - scrisse una ventina di righe di condanna morale contro quelle scritte, col risultato di sporcare molto di più il muretto di quanto avessero fatto un paio di scritte talmente sceme ed insulse da passare inosservate.
Ed è esattamente la sensazione che provo quando osservo le polemiche sui cori razzisti allo stadio. Chi auspica sospensioni di partite, provvedimenti draconiani, in realtà non fa altro che sporcare ancor di più un muro in cui le scritte, se ignorate, passerebbero del tutto inosservate.
Il totalitarismo progressista riesce a sbagliare persino quando si batte per cose giuste.

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Franco Marino
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