Se non avessi avuto un padre fanatico di questo sport, al quale mi legano quarant'anni di ricordi di tante partite viste insieme, il tennis avrebbe tutte le caratteristiche per essere da me odiato. Politicamente corretto, con esultanze, movenze, i soliti coretti (il famoso "popopopoporopooo" seguito dal puntuale "olèèèèè", che ha francamente rotto le palle) la stretta di mano al tennista anche se si è comportato da idiota per tutta la partita. E però, chi il tennis lo ha seguito in questi anni ha vissuto anni d'oro. Talenti fantastici sin da quando ero bambino: ho fatto in tempo ad ammirare McEnroe ed Edberg (a Borg si era già bruciato il cervello) e poi via via i vari Boris Becker, Sampras, Agassi, fino ad arrivare ai tre mostri odierni, da Federer (ritiratosi da poco, a 41 anni compiuti) Nadal e Djokovic. E infine questo Alcaraz che sembra destinato a segnare un'epoca.

Non ho mai sopportato l'idea che lo sport debba essere politica. Per questo motivo, non ho mai gradito due calciatori politicamente all'opposto: Lucarelli e Di Canio. Il calciatore deve fare il calciatore, il tennista deve fare il tennista. E tuttavia, il momento in cui questo viene meno tutto questo è quando la politica entra indebitamente nelle dinamiche dello sport. Quando arriva al punto di costringere un tennista a vaccinarsi per evitare di essere escluso, quando rimuove la bandiera russa da tutti gli albi dell'ATP e della WTA, dai siti ufficiali, come sorta di sfregio nei confronti della Federazione Russa. Quello è il punto di non ritorno di uno sport che cessa di essere un momento di unione, come del resto inteso dallo spirito olimpico, e diventa bieca propaganda.
Non è soltanto il tennis ad esserne invaso. Chi segue il calcio e ha ancora lo stomaco di seguire la Nazionale, si sarà chiesto come sia possibile che sia convocato un calciatore come Gnonto, preso dal campionato svizzero e che, senza aver giocato una sola partita in serie A, sia un punto fermo della Nazionale. E la risposta, fin troppo ovvia, è che si voglia usare il calcio come vettore di propaganda multiculturale, senza curarsi del fatto che tra un po' ci saranno gli Europei ai quali l'Italia, messa com'è, pur con un grande allenatore come Spalletti, rischia di non qualificarsi pur da detentrice del titolo, col risultato che poi si rinfocoleranno le polemiche sul CT e non invece su uno sport divenuto squallido veicolo per fini politici.

Allora ecco perché, comunque finisca oggi la sfida tra Djokovic e Medvedev, indipendentemente dal fatto di goderci un grandissimo tennis - il serbo è, con ogni probabilità, il più grande giocatore di ogni epoca, ma anche il russo è fortissimo - è una vittoria dello sport: perché si affrontano due sportivi provenienti da nazioni sotto attacco, da sempre, dell'imperialismo americano, e che hanno dimostrato di saper tenere la schiena dritta contro ogni imposizione. Non è questione di essere di destra o di sinistra, di essere filorussi o filoamericani. E' questione che qui è in ballo la credibilità delle democrazie liberali, che non possono pretendere di essere credibili se, di fronte al dissenso, rispolverano la scure della censura, che sia dichiarata o surrettizia.
E a proposito di dissenso. Djokovic e Medvedev, qualcuno ha detto, sono come Jesse Owens, che a Berlino avrebbe fatto un gesto di protesta contro il nazismo. Ebbene, che si sappia, è una falsità. L'incontro tra Owens e Hitler fu cordialissimo, il Fuhrer strinse la mano all'atleta statunitense, complimentandosi con lui, come lo stesso Owens ebbe a dire, a più riprese.
Sapete chi si rifiutò di stringergli la mano? Il presidente degli Stati Uniti, Roosevelt.
Detto questo, detto tutto.

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Franco Marino
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