Il capitolo si apre con questa citazione tratta dal Dhammapada, XX-277:

Ogni cosa esistente è impermanente.

Quando si comincia a osservare ciò,
con comprensione profonda e diretta esperienza,
allora ci si mantiene distaccati dalla sofferenza:
questo è il cammino della purificazione.



Queste parole si legano alla storia con cui Marco chiude il capitolo e che narra del potere di Maya, l'illusione che confonde e carpisce l'essere umano. Ma riporterò la storia alla fine dell'articolo, perché è davvero molto bella.

Ho voluto aprire anche questo articolo con la citazione voluta da Marco, perché questo insegnamento è parte integrante di quello più ampio dato dal maestro spirituale.
Tutto il capitolo è centrato sulla figura del Maestro, che ricorre in tutte le tradizioni religiose: Buddha, Gesù, Krishna... Ognuno di questi era un maestro spirituale e ognuno, in termini differenti, guidava il discepolo verso il Centro, Dio, il Dharma.

Affidarsi a un maestro significa essenzialmente impegnarsi in una disciplina. Richiede umiltà, ricettività, apertura di cuore, rispetto verso la persona che ci sta facendo dono di sé per pura compassione.
È per questo che in pochi sanno essere buoni allievi. Essere buoni allievi non significa essere allievi perfetti, ma significa fidarsi del proprio maestro.

Questa fiducia ha radici profonde, perché il maestro esterno non è altro che manifestazione visibile del Maestro interno.
Ognuno di noi ha un maestro interno, una facoltà che riconosciamo superficialmente come intuizione, ma che, se fatta emergere attraverso l'introspezione profonda in noi stessi, diverrà quel dito capace di indicarci la luna con molta più frequenza di quanto non faccia in chi non si cura della dimensione spirituale.

Oggi abbiamo due problemi, figli della nostra epoca: l'incapacità di sottostare a una disciplina quotidiana e l'idea che un percorso spirituale debba essere a nostra immagine e somiglianza.
Queste due tendenze sono mosse da un individualismo di fondo che contamina anche altri aspetti della nostra vita, ma che sembra legittimo in un cammino spirituale.
Il punto è che l'unica caratteristica che l'uomo attuale riconosce alla spiritualità è l'intimità, cioè: questa dimensione è personale, per cui nessuno può sapere meglio di me come procedere.
Niente di più sbagliato!

Soltanto un ingenuo può credere di potersi inabissare nei luoghi più remoti della propria anima in tutta tranquillità e senza il pericolo di un agguato da parte delle proprie oscurità.
Vi ricordo l'esempio di Dante, già citato nello scorso articolo: il Poeta sarebbe stato divorato dalle belve, se non fosse giunto Virgilio a tirarlo fuori dalla selva perigliosa e oscura. Dante, fedele d'Amore, sapeva bene che, senza un Maestro, qualsiasi cammino spirituale è destinato a smarrirsi, deviare, girare attorno al proprio ego per anni, senza mai andare oltre i recinti dell'illusione.

Marco Cosmo avverte, però, di stare attenti a tutti quegli anti- guru che si fanno maestri di sovversione e che fanno parte di tutto quel mondo New Age in cui prosperano il mercato dello spirito e una visione individualistica della religione. Non troverete maestri autentici in quel contesto, ma soltanto truffatori che vogliono vendervi due ore di estasi mistica o gonfiare il proprio ego spacciandosi per grandi santoni. E questo, nella migliore delle ipotesi.

Se però avrete la grazia di incontrare il vostro maestro, una persona sincera che vi insegnerà la via del Dharma senza chiedere nulla in cambio, se non sangue e sudore, impegno totale nella pratica e cuore sincero, allora ringraziate Dio e fate del vostro meglio per andare avanti nel percorso spirituale. Il maestro non vi chiederà altro che fidarvi di lui, perché sa che quella fiducia non nutre un suo bisogno di essere importante, ma accresce quella nel Maestro interno, affinché poi, progressivamente, l'allievo possa rendersi autonomo e divenire egli stesso maestro.

Uno degli insegnamenti fondamentali che dà un maestro è che non ci si può attaccare alle cose del mondo, perché sono impermanenti. Un lavoro può cessare, una persona che ci è cara può lasciarci, possiamo trovarci costretti a cambiare casa. Il nostro stesso corpo muta: non è più quello di quando avevamo cinque, sedici o vent'anni e talvolta può ammalarsi.
Veniamo a contatto con la morte delle persone che amiamo e non sono sempre le più anziane.

Quando queste cose avvengono, soffriamo moltissimo. Ci sono dolori profondi, come la perdita di un figlio o dell'amore della propria vita. E sembrerà crudele parlare di impermanenza in riferimento a chi amiamo. Ma il maestro non vi dirà mai di rifiutare il dolore, la rabbia, il senso di impotenza, lo sconforto. Tutto ciò va accolto e lasciato fluire.
Ma è fondamentale osservare il dolore senza giudicarlo, lasciarlo esprimere senza volerlo controllare. E poi, attraverso l'osservazione, faremo pace con questo dolore, lo accetteremo.

Ciò che insegna il maestro è che ciò che viviamo sul piano della percezione fa parte della Grande Illusione e avere consapevolezza di questo impedisce al dolore di degenerare in sofferenza, che è attaccamento al dolore. La sofferenza è rifiuto della realtà e attaccamento alla volontà egoica, che dice che non è giusto che sia morto nostro figlio, che la nostra donna ci abbia lasciato, che la nostra attività sia fallita.

Ma giusto e ingiusto sono categorie umane, che funzionano sul piano umano. Ma le cose della vita vanno esattamente come devono andare.

Vi lascio con questa bellissima storia della tradizione indiana:

Un giorno Narada, il capo dei musici celesti, disse al Signore dell'Universo: "Signore, mostrami il potere d'illusione di Maya che può trasformare l'impossibile in possibile". Krishna sorrise e fece un segno di assenso, poi s'incamminò insieme a Narada. Dopo aver camminato per un certo lasso di tempo, il Signore Krishna ebbe sete e disse a Narada: "Ho sete, vammi a cercare da qualche parte un poco d'acqua".


Narada prese una brocca e partì alla ricerca di acqua perciò si allontanò sempre di più dal suo Signore, finché avvistò un villaggio vicino al corso di un fiume. Narada arrivò al villaggio e bussò alla porta della prima casa, per chiedere una brocca d'acqua. Comparve una ragazza bellissima e al santo successe ciò che non aveva mai neppure immaginato; gli occhi scuri della ragazza lo incantarono, sembravano gli occhi di loto nero-blu del suo divino amico e Maestro. Attonito, Narada continuava a guardare, senza mai saziarsi di quella incantevole donna. Dimenticò completamente che cosa volesse chiedere alla ragazza e che cosa lo avesse condotto nel villaggio. Rispettosamente e con semplicità, la fanciulla gli diede il benvenuto; la sua voce era come un magico laccio d'oro che si posava carezzevole sul capo dell'eremita, il quale, come un sogno, seguì l'invito ed entrò in casa.

Venne ricevuto come si riceve un uomo santo; tutta la casa sembrava felice e fiera per la sua presenza. Narada rimase e iniziò questa nuova vita che silenziosamente si chiudeva attorno a lui come una lucente conchiglia, insieme al fiore radioso della grazia e della purezza della giovane donna.
Narada non ricordava da dove veniva. Che cosa lo aveva portato qui? C'era qualcuno, fuori nel mondo, che lo aspettava? Lo aveva dimenticato, si era perso in sé stesso: ed era rimasto. Si era innamorato della ragazza. Ne chiese la mano al padre e sembrò che tutti non attendessero altro che egli diventasse un membro della loro famiglia.
Si sposarono ed ebbero tre figli. Passarono gli anni, il padre morì e Narada ereditò bestiame e campi e proseguì il lavoro dello scomparso. Trascorsero altri dodici anni: poi, durante il periodo delle piogge, un'inondazione distrusse tutto il villaggio. Le capanne di paglia sprofondarono nel fango, il bestiame venne portato via dalla corrente delle acque rigonfie e annegò nei gorghi. Tutti dovettero fuggire.

Narada prese per mano la moglie e due figli, mentre il più piccolo era sulle sue spalle. Con passo malfermo, se ne andò nella notte flagellata dalla pioggia, nell'acqua impetuosa che correva rombando e che si alzava sempre di più. La sua violenza era superiore alle forze di un uomo. Narada non resistette alla corrente, inciampò: il bambino più piccolo gli scivolò dalle spalle e scomparve nei flutti. Narada urlò inorridito e lasciò le mani degli altri due figli per salvare il piccolo: inutilmente.
Anche gli altri due vennero strappati dal suo fianco e scomparvero inghiottiti dalle tenebre.
Teneva ancora la mano della moglie rigidamente nella sua, ma un'onda li avvolse, li divise con violenza, lo portò via, lo fece andare alla deriva nella notte e infine lo gettò privo di sensi su una piccola altura.
Quando rinvenne, si rese conto dell'infinità della propria pena, guardandosi attorno, vedendo il disastro sul quale spuntava una pallida luce. Scoppiò a piangere.

Improvvisamente dietro di sé, sentì una voce nota, che lo fece sussultare: "Figlio, dov'è l'acqua che mi dovevi prendere? È da più di mezz'ora che ti sto aspettando".
Narada smise di piangere subito e chiese: "Da mezz'ora?" Nella sua mente erano passati più di dodici anni, ma in realtà era trascorsa solo mezz'ora. Voltò il capo verso la divinità che stava in piedi dietro di lui e abbassò la fronte con un brivido, mentre le labbra infinitamente affascinanti di Krishna si aprirono in un sorriso, dicendogli: "Ora conosci il mistero della mia Maya!"

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