Due notizie hanno destato la mia attenzione: la polemica sull'utero in affitto, che vuole essere sdoganato anche in Italia e una piccola notizia di cronaca quotidiana, che riporta la condanna a un anno di carcere per un uomo che ha commesso un furto del valore di otto euro per pura e semplice fame.

Le notizie sembrerebbero non c'entrare niente l'una con l'altra, ma, se andiamo a guardare i protagonisti di entrambe, vedremo che la radice è la stessa, la povertà.
La protagonista dell'utero in affitto è infatti la donna che si rende disponibile, in cambio di denaro, a "prestare" il suo grembo come incubatrice di un bimbo di cui non potrà essere madre. Generalmente si parla di donne in difficoltà economica se non poverissime, come quelle provenienti da tutta quella parte di Oriente che non beneficia del progresso tecnologico, anzi lo subisce.
L'uomo che ha commesso il furto è di Trento, ha rubato una frittura e due brioches e, dopo il furto, ha pure scritto una lettera di scuse per giustificare la sua fame. Non bastava una multa, addirittura un anno di carcere per reato di povertà.

Le due situazioni sono diverse, ma l'abbandono è lo stesso.
C'è la donna indiana che forse è nata in una condizione di implacabile povertà, ma da noi c'è l'italiano che, povero, non lo è stato sempre. Probabilmente si è impoverito nel tempo, ha difficoltà a trovare un lavoro perché è grande d'età, perché non ce la fa più a fare certi lavori o non ha l'esperienza o i titoli richiesti per farne altri.
La povertà è una condizione non voluta e il povero fa di tutto, nel limite delle sue scarse disponibilità economiche, per uscirne.
Nel frattempo si rivolge al comune, alla Caritas, alla Croce Rossa, alle suore, alla rete sociale di cui dispone per non morire di fame e mantenere casa e utenze finché, si spera, riuscirà a risalire dal baratro della mancanza di soldi in cui è immerso.

Ma non sempre le risposte sono adeguate. I dipendenti comunali, nel ruolo di assistenti sociali, danno per scontate molte cose, semplicemente perché per loro, puntualmente stipendiati, lo sono.
Vi racconto un aneddoto personale, giusto per farvi capire il tipo umano con cui mi sono trovata a discutere: faccio presente all'assistente che ho dovuto stoppare gli studi perché ho urgente bisogno di lavorare, dato che il reddito principale è venuto a mancare e io e la mia famiglia non vogliamo finire sotto i ponti. Dopo avermi guardata come a dire "guarda, questa è pure iscritta all'Università ed è disposta a lavorare addirittura al Mc Donald's", esordisce con una domanda che mi ha lasciato basita:

"Ma se ora non avessi il problema economico, quale sarebbe il tuo desiderio? Lavorare o laurearti?"
"Guardi, onestamente non lo so, al momento vorrei un lavoro perché NE HO BISOGNO."
"Ti andrebbe di fare un percorso psicologico per fare chiarezza dentro di te?"

Cioè io ti sto dicendo che abbiamo bisogno di un'entrata mensile, che voglio lavorare per non finire sotto i ponti e la tua soluzione è il percorso psicologico?
Capisci che non è che sia confusa, ma semplicemente sono senza soldi?
Vuoi vedere la mia povertà invece che ignorarla per trovare un qualche fottuto problema psicologico che esiste solo per te che non hai il problema di pagare affitto, luce e cibo ogni mese?

Per non parlare delle associazioni di carità popolate di bigotte borghesi che tentano di capire se sei abbastanza vestito male o disperato per decidere se sei veramente povero. Non puoi avere un amor proprio, una dignità personale: sei povero, quindi fai parte di quella schiera indistinta di carne umana che sta ai margini, dimenticata dalla società civile o tutt'al più usata come strumento per alleggerire il sepolcro imbiancato della coscienza.
Il povero è l'unica categoria che non sarà mai glamour, non entrerà nelle priorità di chi si occupa dei problemi delle minoranze esotiche, perché è lo specchio di una condizione di cui tutti hanno il terrore.

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Mina Vagante
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