Viviamo in una società che ci vuole sempre e costantemente performanti, ebbra del mito dell'uomo che si è fatto da solo, schifa il limite e vive il fallimento come una condanna a morte.
Questo ha creato parecchie ferite nella nostra interiorità, ma anche nella nostra umanità, nel nostro essere mediani tra Dio e la bestia.
La mediocritas, un tempo, era una virtù. Era la caratteristica dell'uomo virtuoso, stoico, capace di equilibrio interiore, di senso della misura. Ora il significato è degenerato nella sprezzabile mediocrità, la condizione dell'uomo senza qualità, colui che non spicca tra i suoi simili, ma fa parte dell'oceano indistinto della massa, entità acefala in cui si smarrisce l'unicità della persona.
È chiaro che, se la comunità ti dice che devi necessariamente brillare e abbagliare gli altri con la tua luce, se non riesci a farlo in ogni aspetto della tua vita, maturi la convinzione di non valere, di essere un mediocre, un uomo senza qualità.
Spesso questo mito della performance si applica anche agli stati d'animo, alle emozioni. Se non riusciamo a reggere una situazione, se ci scopriamo fragili, tristi, arrabbiati, oppressi, afflitti da qualsivoglia problema, ci sentiamo quasi in colpa per non essere capaci di sopportare le difficoltà della vita, ci giudichiamo inadatti a gestire la pressione.
Per questo fa sempre bene rivolgersi ad esempi più illustri.
Chi mastica un po' di tradizione cristiana o conserva i ricordi del catechismo, conosce sicuramente la Via Crucis. Nella tradizione cattolica, Gesù cade tre volte sotto il peso della Croce. Nel Vangelo non si fa riferimento a queste cadute, ma nei tre vangeli sinottici si dice che un certo Simone di Cirene viene incaricato di aiutare Gesù a trasportare la croce, perché, oltre che pesante, grava sulle spalle flagellate e sanguinanti del Cristo.
Per non parlare dell'episodio del Getsemani: Gesù sa che presto verrà tradito e dovrà bere l'amaro calice della crocifissione, ma dichiara la sua paura al Padre, addirittura lo prega di evitargli il sacrificio, se evitarlo risponde alla volontà celeste.
Il Figlio di Dio, che è Dio stesso, ha paura della morte, soffre fisicamente la crudeltà delle frustate, si mostra quindi nella sua fragilità umana, perché dell'umanità ha partecipato.
E noi, che siamo tanto più umani di lui, dobbiamo vergognarci perché cediamo al peso delle nostre croci? Dobbiamo vergognarci perché il senso di inadeguatezza ci fa paura? Dobbiamo soffrire perché non siamo sempre e comunque impeccabili in tutto?
No. Basta con questa ulteriore violenza su noi stessi. Basta col voler essere, nel senso più insidioso possibile, dei Superuomini e delle Superdonne. Cediamo alla possibilità di cadere, di sentirci stanchi, accogliamo la nostra umanità, anche quella che ci fa sembrare vulnerabili al mondo. Non è del mondo che siamo... Preghiamo il Padre Nostro che è nei cieli, chiediamo che ci eviti l'amaro calice, accettiamo l'aiuto di un Simone che ci consenta di alleggerirci dal peso della nostra Croce. E con fede, se possiamo, affidiamoci alla Sua volontà.
Questo ha creato parecchie ferite nella nostra interiorità, ma anche nella nostra umanità, nel nostro essere mediani tra Dio e la bestia.
La mediocritas, un tempo, era una virtù. Era la caratteristica dell'uomo virtuoso, stoico, capace di equilibrio interiore, di senso della misura. Ora il significato è degenerato nella sprezzabile mediocrità, la condizione dell'uomo senza qualità, colui che non spicca tra i suoi simili, ma fa parte dell'oceano indistinto della massa, entità acefala in cui si smarrisce l'unicità della persona.
È chiaro che, se la comunità ti dice che devi necessariamente brillare e abbagliare gli altri con la tua luce, se non riesci a farlo in ogni aspetto della tua vita, maturi la convinzione di non valere, di essere un mediocre, un uomo senza qualità.
Spesso questo mito della performance si applica anche agli stati d'animo, alle emozioni. Se non riusciamo a reggere una situazione, se ci scopriamo fragili, tristi, arrabbiati, oppressi, afflitti da qualsivoglia problema, ci sentiamo quasi in colpa per non essere capaci di sopportare le difficoltà della vita, ci giudichiamo inadatti a gestire la pressione.
Per questo fa sempre bene rivolgersi ad esempi più illustri.
Chi mastica un po' di tradizione cristiana o conserva i ricordi del catechismo, conosce sicuramente la Via Crucis. Nella tradizione cattolica, Gesù cade tre volte sotto il peso della Croce. Nel Vangelo non si fa riferimento a queste cadute, ma nei tre vangeli sinottici si dice che un certo Simone di Cirene viene incaricato di aiutare Gesù a trasportare la croce, perché, oltre che pesante, grava sulle spalle flagellate e sanguinanti del Cristo.
Per non parlare dell'episodio del Getsemani: Gesù sa che presto verrà tradito e dovrà bere l'amaro calice della crocifissione, ma dichiara la sua paura al Padre, addirittura lo prega di evitargli il sacrificio, se evitarlo risponde alla volontà celeste.
Il Figlio di Dio, che è Dio stesso, ha paura della morte, soffre fisicamente la crudeltà delle frustate, si mostra quindi nella sua fragilità umana, perché dell'umanità ha partecipato.
E noi, che siamo tanto più umani di lui, dobbiamo vergognarci perché cediamo al peso delle nostre croci? Dobbiamo vergognarci perché il senso di inadeguatezza ci fa paura? Dobbiamo soffrire perché non siamo sempre e comunque impeccabili in tutto?
No. Basta con questa ulteriore violenza su noi stessi. Basta col voler essere, nel senso più insidioso possibile, dei Superuomini e delle Superdonne. Cediamo alla possibilità di cadere, di sentirci stanchi, accogliamo la nostra umanità, anche quella che ci fa sembrare vulnerabili al mondo. Non è del mondo che siamo... Preghiamo il Padre Nostro che è nei cieli, chiediamo che ci eviti l'amaro calice, accettiamo l'aiuto di un Simone che ci consenta di alleggerirci dal peso della nostra Croce. E con fede, se possiamo, affidiamoci alla Sua volontà.