Vi sono luoghi e tempi in cui è raro incontrare la bellezza, ma, quando questo avviene, è doloroso poi privarsene. Noi italiani siamo fortunati, abbiamo un immenso patrimonio culturale che ci pone in contatto col Bello, per cui possiamo incontrarlo più spesso di altri popoli. In molti avranno provato la meraviglia di fronte a una cattedrale, a un dipinto, una scultura e, una volta rientrati nella dimensione del quotidiano, la sensazione di mescolarsi nuovamente al banale, al prosaico, se non al brutto.
Io ho provato questo nel seguire il percorso del capitano Algren, protagonista del film L'ultimo samurai.
Le vicende sono ambientate nel Giappone di fine '800, occupato dalle forze statunitensi e avviato verso un processo di modernizzazione di stampo occidentale. C'è uno zoccolo duro che si oppone a questo movimento antitradizionale, un gruppo di resistenti formato dagli ultimi samurai. A capo di questo gruppo v'è Katsumoto, valoroso patriota e devoto all'imperatore.
La figura di Katsumoto è affascinante perché ispirata al vero ultimo samurai, Saigō Takamori. Takamori era profondamente contrario all'occidentalizzazione forzata del paese e, benché talvolta vestisse con la divisa occidentale, lottava per l'onore e l'indipendenza del Giappone.
Katsumoto è una sua versione romanzata e forse anche più radicale, ma capace di restituire la reale essenza della società giapponese tradizionale.
Zen e Bushido si fondono nei gesti rituali, lenti e precisi, nella disciplina che coordina ogni azione, nella dignità del guerriero giapponese.
Quando Algren vive la vita di quel nucleo tradizionale, immerso in un paese che si avvia alla decadenza occidentale, vi trova una pace che coinvolge anche lo spettatore. E per pace non si intenda una sorta di buonismo soporifero, bensì un'aderenza a quanto di più autentico vi sia nell'essere umano.
Tant'è che quando questa parentesi di normalità si interrompe e Algren torna nella zona occidentalizzata, noi viviamo il suo disagio nel riprendere una vita che non è vita, artificializzata da una tecnica disumanizzante e resa sgradevole da rapporti di convenienza, nei quali non v'è spazio per cose come l'amicizia, il rispetto, il cameratismo, l'onore.
Tutto ciò che rende la vita degna d'essere vissuta e conduce a una "bella morte" non si può trovare nello stile di vita occidentale deformato dal progresso tecnologico.
Ciò non significa che la nostalgia di un passato a misura d'uomo debba bloccarci nell'inazione, ma il riconoscimento di ciò che abbiamo perduto e che ancora fa vibrare le corde del nostro cuore deve guidarci nel cammino di restaurazione tradizionale.
Io ho provato questo nel seguire il percorso del capitano Algren, protagonista del film L'ultimo samurai.
Le vicende sono ambientate nel Giappone di fine '800, occupato dalle forze statunitensi e avviato verso un processo di modernizzazione di stampo occidentale. C'è uno zoccolo duro che si oppone a questo movimento antitradizionale, un gruppo di resistenti formato dagli ultimi samurai. A capo di questo gruppo v'è Katsumoto, valoroso patriota e devoto all'imperatore.
La figura di Katsumoto è affascinante perché ispirata al vero ultimo samurai, Saigō Takamori. Takamori era profondamente contrario all'occidentalizzazione forzata del paese e, benché talvolta vestisse con la divisa occidentale, lottava per l'onore e l'indipendenza del Giappone.
Katsumoto è una sua versione romanzata e forse anche più radicale, ma capace di restituire la reale essenza della società giapponese tradizionale.
Zen e Bushido si fondono nei gesti rituali, lenti e precisi, nella disciplina che coordina ogni azione, nella dignità del guerriero giapponese.
Quando Algren vive la vita di quel nucleo tradizionale, immerso in un paese che si avvia alla decadenza occidentale, vi trova una pace che coinvolge anche lo spettatore. E per pace non si intenda una sorta di buonismo soporifero, bensì un'aderenza a quanto di più autentico vi sia nell'essere umano.
Tant'è che quando questa parentesi di normalità si interrompe e Algren torna nella zona occidentalizzata, noi viviamo il suo disagio nel riprendere una vita che non è vita, artificializzata da una tecnica disumanizzante e resa sgradevole da rapporti di convenienza, nei quali non v'è spazio per cose come l'amicizia, il rispetto, il cameratismo, l'onore.
Tutto ciò che rende la vita degna d'essere vissuta e conduce a una "bella morte" non si può trovare nello stile di vita occidentale deformato dal progresso tecnologico.
Ciò non significa che la nostalgia di un passato a misura d'uomo debba bloccarci nell'inazione, ma il riconoscimento di ciò che abbiamo perduto e che ancora fa vibrare le corde del nostro cuore deve guidarci nel cammino di restaurazione tradizionale.