Chi mi conosce bene sa che, da qualche tempo, intraprendo un cammino di introspezione. Questa parola può generare diversi intendimenti in chiunque la legga, per cui ci si potrebbe fare l'idea che l'introspezione abbia a che fare con la filosofia o con la riflessione, con la religione, talvolta con l'immaginazione. Ma la pratica introspettiva, che si può declinare in diverse tecniche, non prevede altro che guardarsi dentro, osservare ciò che si muove nella propria interiorità.
Ognuno di noi, prima di impegnarsi in una pratica simile, ha l'illusione di conoscersi perfettamente e pensa di essere consapevole di ogni azione che compie.
Quando cominciai a praticare la contemplazione, la prima cosa che mi disse il mio maestro fu: "Prova a pensare a una sola immagine per un minuto. Non devi pensare ad altro, solo all'immagine da te scelta". Scelsi una rosa rossa e mi misi a meditare, provando a tenere quell'unica immagine in testa. Fu quel giorno che scoprii di non avere alcun controllo sul movimento della mente, quindi sul pensiero. Bastò quel solo esercizio a farmi capire che le associazioni di idee, il sottofondo del pensiero, la rosa che svanisce presto per lasciar spazio ad altre immagini, gli impegni che si susseguono uno dopo l'altro mentre provi a meditare per venti minuti, fanno tutti parte di un pezzettino di te di cui non sei minimamente consapevole e che ti muove nel mondo, talvolta agitandoti e talvolta deliziandoti.
Ecco, l'inconsapevolezza muove la gran parte delle nostre azioni e ci vuole molto esercizio per accorgersi di essa.
Ho letto della donna che è morta per un intervento al seno, eseguito a domicilio da un'estetista brasiliana trans. Ho pensato a svariate cose, ma più di tutto ho pensato al rapporto che questa donna, come molte altre donne, aveva col suo corpo e con l'immagine del suo corpo. È inevitabile che, in una società dell'immagine come la nostra, il pensiero di come veniamo percepiti esteticamente dagli altri ci domini. Ricordo che, quando ero ragazzina, i miei coetanei difficilmente si iscrivevano in palestra, più che altro praticavano sport di squadra. Oggi vediamo, invece, i ragazzini dai tredici anni in su che già pensano di scolpire il fisico. Per carità, non ho nulla contro l'attività fisica in sé, ma vedo, nella maggior parte dei casi, non tanto la voglia di stare in salute o piacersi, quanto di essere instagrammabili. L'intera esistenza deve essere instagrammabile, altrimenti non si è nessuno, si è sfigati. Ferragni docet.
Ricordo ancora che, sempre quando ero una ragazzetta, chi ricorreva alla chirurgia plastica veniva fortemente stigmatizzato. Serpeggiava l'idea non solo che l'artefatto fosse peggio del naturale, ma che una persona rifatta fosse meno autentica, in primis con se stessa. Come nel caso della palestra, anche i fruitori della chirurgia estetica sono sempre più giovani. Il ritocchino è ormai diventato un must have e non è più tabù nemmeno tra le ventenni.
Così, in questa sfilata di volti tutti uguali, gonfiati di botulino e ammiccanti sotto il filtro giusto, abbiamo l'occasione di specchiarci nel riflesso delle nostre paure, dei nostri desideri condizionati e di ciò che realmente abita in noi.

Da donna, il tema del corpo mi è più che familiare e non solo dal punto di vista estetico. O meglio: l'estetica si accompagna necessariamente alla confidenza che ho col mio corpo, coi suoi cicli e le sue esigenze. Per una serie di sincronicità, ho rispolverato il libro "Donne che corrono coi lupi", un testo che, se avessi delle figlie adolescenti, farei loro leggere. E se non volessero leggerlo perché non amano farlo, glielo racconterei.
Noi donne abbiamo perso il contatto con la femminilità, anche fisica. In un mondo che ci vuole fluidi, indifferenziati, unisex, l'unico modo per guarire da questa crisi d'identità globale è tornare alla consapevolezza della nostra fisicità femminile, al nostro potenziale materno, all'aspetto selvaggio e terreno della nostra femminilità. "Fratelli, restate fedeli alla terra" ammoniva Nietzsche; quando Buddha raggiunge l'illuminazione e trascende l'ego, chiama la terra a testimone. Perché la terra è radici, è origine, è la casa a cui dobbiamo tornare quando dobbiamo recuperare la nostra integrità, quando dobbiamo ritrovare noi stessi. La complessità dell'organizzazione che si è dato l'essere umano e l'idea di poter scegliere (e non più scoprire e realizzare) ciò che si deve essere, la volontà stessa di essere qualcosa di diverso da ciò che si è, ci hanno portato sempre lontani dalla nostra essenza, dalla nostra vera natura. Quando capiamo l'importanza di tornare in essa e realizzarla, ricerchiamo le cose semplici, fateci caso. Per qualcuno può essere una passeggiata nella natura, per un altro un abbigliamento più sobrio, per una persona che non apre un libro da tanto può essere il ritorno a una buona lettura, ma anche lasciare un lavoro per noi deleterio, prendersi dei momenti di solitudine. Come scrive la Estés, tutto può essere un ritorno a casa, purché questa azione risuoni in noi.
Il rapporto che abbiamo col nostro corpo può essere la spia che ci indica quanto distanti siamo da casa e quanto tempo ci occorre per tornarvi. Se non vediamo il corpo per ciò che è, ma solo come oggetto capace di attrarre e da modificare in maniera invasiva se non attrae abbastanza, forse c'è qualcosa che non va. Forse è il caso di chiedersi quanta strada si è percorsa e se la direzione che abbiamo preso sia quella giusta.

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Mina Vagante
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