Posso solo ribadire per l’ennesima volta che, nelle vicende di maggior rilievo per il nostro paese, quasi mai verità giudiziaria e verità storica coincidono. Rosario Priore


Dal suo ragionamento emerge il legame quasi indissolubile tra le vicende italiane e il contesto internazionale. Eppure, mi scusi se insisto su questo punto, ci sono correnti di opinione, alimentate da storici e intellettuali, che non ne tengono conto: tendono a rinchiudere le vicende interne dentro ì confini angusti di casa nostra, accusando di dietrologia e di complottismo chi invece prova ad allargare l’orizzonte.


Sì, ci sono correnti che tendono a privilegiare la chiave di lettura interna rispetto a quella internazionale. Io invece sono del parere che non si possa prescindere né dall’una né dall’altra: le ricostruzioni vanno fatte su entrambi i piani. Anzi, se posso aggiungere qualcosa a questa risposta, bisogna in un certo senso dare la precedenza alle interpretazioni di natura internazionale. Perché le vicende internazionali hanno un peso maggiore sulla nostra storia. Mi sembra persino banale ricordarlo, ma la politica di un paese grande e importante come gli Stati Uniti risente in misura minore dei condizionamenti esterni, al contrario di quanto accade per un piccolo paese come l’Italia. La nostra politica è determinata più da accadimenti esterni che da ideologie ed eventi nostrani. Proprio perché, nonostante tutto, siamo una nazione piccola e debole rispetto alle grandi potenze, risentiamo molto di più di tutto quello che accade all’esterno e siamo più sensibili alle volontà di altri stati. Tant’è che oggi, avendo perso con il crollo del Muro di Berlino gran parte del nostro peso, e quindi della nostra rendita di posizione, nel giro di pochi anni siamo diventai un vaso di coccio fra vasi di ferro. E qualsiasi club di nazioni che contano ci tiene sempre fuori dalla porta.

Ma allora, secondo lei, perché si tende a negare questo legame di dipendenza?


Non lo so. Forse per provincialismo culturale. O forse perché, come dice Giovanni Pellegrino, la dipendenza italiana dall’esterno è un dato impronunciabile della nostra storia: dobbiamo sforzarci di apparire normali e indipendenti, quando non siamo stati mai né l’una né l’altra cosa. In ogni caso, solo chi non conosce a fondo le relazioni internazionali e la loro influenza sulla vita dei singoli stati, specie di quelli a struttura debole, può continuare a negare quel legame dì dipendenza. Non smetto mai di ricordare che esistono altre aree strategicamente importanti, nelle quali noi siamo collocati. E porrei al primo posto il Mediterraneo, dove esistono interessi di tutto rispetto e quindi conflittualità, linee di collisione, scontri debilitanti, a volte devastanti proprio come le guerre e le invasioni dei secoli scorsi. Mentre in Europa, invece, i rapporti sono più statici, hanno perso qualsiasi turbolenza, perché ormai, anche questo va detto, le nazioni sanno quali sono le proprie sfere di influenza politica, ma anche i limiti da non superare. Quindi è difficile che i rapporti, le relazioni tra gli stati europei mutino di molto o comunque traumaticamente. In alcune aree del Mediterraneo, all’opposto, esistono ampi margini di instabilità, zone in cui i conflitti sono quasi endemici: scacchieri di grande interesse economico e strategico, con culture diverse, influenzate da ideologie e religioni in contrasto da secoli. E in cui è possibile giocare partite forti, in grado di determinare anche sovvertimenti e guerre.

Quali erano i principali giocatori, in quest’area, almeno fino alla caduta del Muro?


Innanzitutto l’Italia, che ha sempre preteso di giocare la sua partita, dimenticando però che questo mare non era più «nostro» ed era divenuto nel corso dei secoli un mare inglese, in cui dominava la Mediterranean Fleet, una delle tante flotte della «signora degli oceani». La Gran Bretagna controllava le vie d’accesso al Mediterraneo (stretto di Gibilterra e canale di Suez), i principali pilastri delle rotte interne (le isole di Malta e Cipro), le coste nordafricane e mediorientali. Quindi poteva impedire non solo gli spostamenti est-ovest, ma anche quelli nord-sud. Come s’è visto durante la seconda guerra mondiale.

Pertanto si ‘e giocata innanzitutto una partita fra Italia e Inghilterra?


Nel corso del XX secolo ci sono stati diversi tentativi italiani di conquistare una posizione di predominio nel Mediterraneo, ridimensionando la presenza inglese. Questa era la linea, per esempio, degli statisti dei primi del Novecento, che però non seppero sfruttare le grandi occasioni. Infatti, ripiegarono sull’impresa di Libia, invece di scegliere una delle alternative offerte dalla storia: aderire alla proposta britannica di un «condominio» anglo-italiano sul Sudan o fornire l’ausilio in funzione antinglese agli Usa. La linea di personaggi come Francesco Crispi e Giovanni Giolitti fu seguita poi dal regime fascista, che voleva addirittura tentare avventure sugli oceani, oltrepassando le colonne d’Ercole e il canale di Suez. La guerra sul mare, combattuta durante il secondo conflitto mondiale, aveva questo scopo. Anche se poi l’Italia, pur avendo una flotta che in determinati momenti è stata persino superiore a quella inglese, non è mai riuscita a fronteggiare l’avversario in mare aperto. Sembrerà strano, ma il progetto di Mussolini ha influenzato anche la linea di condotta dell’Italia democratica, fino ai giorni nostri. E con un certo successo, dal momento che la nostra politica mediterranea, nel dopoguerra, è riuscita a ridimensionare fortemente la presenza britannica.

Però, c’è da chiedersi: sarebbe stato possibile realizzare quel progetto, se una grande potenza come gli Stati Uniti, il nostro scudo protettivo, non lo avesse in qualche modo consentito?


Lei ha ragione. L’America ci ha lasciato fare. Perché le conveniva utilizzare l’Italia per contenere l’espansionismo francese e inglese nel Mediterraneo. Un episodio chiave, da questo punto di vista, fu proprio l’atteggiamento americano durante la guerra anglo-francese del 1956 per riprendere il controllo del canale di Suez, nazionalizzato da Nasser. Gli Usa, in quella circostanza, esercitarono una forte pressione per indurre Francia e Inghilterra a desistere dall’impresa. E vero che, da un lato, gli americani erano molto preoccupati per un possibile intervento sovietico a favore di Nasser, che avrebbe consentito all’Urss di espandere la sua influenza in Medio Oriente. Ma al tempo stesso sarebbero stati più che contenti se l’iniziativa anglo-francese fosse abortita, come in effetti avvenne. Ricordiamo che la flotta statunitense s’interpose al largo di Alessandria tra gli anglo-francesi, che erano sul canale di Suez, e le flotte sovietiche, che stavano raggiungendo i luoghi del conflitto.

Che cosa avevano da temere, gli Stati Uniti, dall’espansionismo in quest’area del mondo di due nazioni che in fondo erano sue alleate, come Inghilterra e Francia?


Il rafforzamento inglese nel Mediterraneo avrebbe comportato di fatto un ritorno allo stato prebellico: quella fase della storia, cioè, in cui il predominio britannico era quasi indiscusso, minacciato soltanto - ma si è trattato di una breve, rovinosa parentesi - dall’Italia fascista. Gli americani temevano che gli inglesi potessero riconquistare il monopolio della forza. A cui inevitabilmente si sarebbe aggiunto, grazie all’intesa con la Francia, quello del controllo delle risorse petrolifere. Questa era la cosa che più temevano. Perché l’intera fascia petrolifera, dall’Iraq all’Algeria passando per l’Egitto e la Libia, appena finita la guerra, era sotto il controllo anglo-francese. Per questo gli Stati Uniti volevano che l’Italia crescesse.

Quindi Italia e Israele finirono per entrare in rotta dì collisione?


In qualche modo sì. L’Italia si rese conto che la politica israeliana le creava serie difficoltà. E Israele non poteva sopportare che il paese occidentale più forte nell’area mediterranea fosse l’Italia, nazione amica degli arabi. Penso che, da un certo punto in poi, italiani e israeliani si siano fatti ombra a vicenda.

Gli americani appoggiavano la politica mediterranea italiana per contenere l’influenza francese e inglese. Come sì comportarono invece nel contenzioso italo-israeliano?


Fra Italia e Israele c’è sempre stata una gara a chi appariva il miglior tutore dell’interesse occidentale nel Mediterraneo. E gli americani, per un lungo periodo, hanno pensato che fosse l’Italia a dare maggiori garanzie in questo senso. Poi le cose sono cambiate. Forse abbiamo fatto delle scelte un po’ troppo sbilanciate a favore dei nostri protetti arabi, provocando la reazione degli Stati Uniti. Così, Israele ha potuto mostrarsi come il paese più degno di sostituire l’Italia nelle funzioni proconsolari in questa periferica regione dell’«impero» di Washington
.

Lei ha già detto della funzione italiana di contenimento dell’asse franco-britannico. Ma c’erano altre ragioni che potevano indurre gli Stati Uniti a preferirci, almeno fino a un certo punto, a Israele?


Sì. Innanzitutto, perché da parte italiana non è mai stata messa in discussione la fedeltà all’Alleanza atlantica. Poi, perché il nostro era un paese con un certo potenziale militare e un’ottima situazione geostrategica: era il molo che serviva alle forze del Patto atlantico. Se la Germania era il bastione che doveva reggere un eventuale impatto con gli eserciti dell’Europa orientale, l’Italia doveva servire come molo d’attracco per tutto quello che eventualmente sarebbe arrivato dagli Stati Uniti per essere poi destinato ai fronti dell’Europa lungo la cortina di ferro. Non è un caso che l’America abbia sempre avuto un interesse per i nostri sistemi portuale, autostradale e ferroviario. Nel caso di un conflitto armato con le potenze comuniste, tutto il materiale bellico che gli americani avessero voluto sbarcare, per farle un esempio, nel porto di Livorno, sarebbe arrivato con la massima rapidità, attraverso la Pianura padana, al confine orientale e sulla costa adriatica. Quindi, la posizione geostrategica dell’Italia costituiva un potenziale enorme dal punto di vista militare. Senza contare, infine, l’importanza della nostra flotta per il monitoraggio del Mediterraneo.

E tutto questo, lei dice, faceva ombra agli israeliani?


Noi, all’epoca, non eravamo la Francia con le sue pulsioni anti-americane. Non eravamo la Spagna con le sue arretratezze. E non eravamo la Grecia, piccola nazione militarmente poco rilevante. Gli israeliani vedevano in noi il paese più vicino agli Stati Uniti, quello su cui l’America aveva costruito le strategie difensive dell’Occidente nel Mediterraneo. E da questo punto di vista gli israeliani si consideravano l’altra opzione, l’unica alternativa all’Italia.



Tratto dal libro Intrigo Internazionale di Giovanni Fasanella

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